lunedì 10 maggio 2010

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Allora ci incamminammo per il sentiero. Elena avanzava al buio davanti a tutti. Sicura. Qualcosa in lei sembrava spronarla. Le molle dei nostri piedi spappolavano le terre sulle pietre. Tutto moriva sotto la nostra luce artificiale ed elettrica. Un botto squartò la noia di Ennio. Ennio non esisteva ma tutto andava bene, anche se tutto era illuminato. I piani si sovrapposero. Caddi nel silenzio nero di sempre. Dormii per millenni nel mio deserto. Svegliatomi venni a sapere di essere caduto dal percorso, e di essermi rotto una gamba. Non sapevo bene quale. Erano tutte e due immobili. Mi dissero che era la sinistra. La mossi. Urlai. Dopo arrivò un’infermiera a portare notizie ai visi lì intorno, ma non era lei: quella che avevo semrpe visto nei miei sogni riguardo agli ospedali e alle mie permanenze al loro interno. Non sentivo più nulla dalle orecchie, ma i miei occhi erano attivi, guizzanti e mordevano ogni cosa che potevano. Vidi notizie pessime uscire dalla bocca e dagli occhi di mia madre. Vidi parole lontane che sputavano morte ovunque. Vidi tutto questo e altri pezzi che ora dimentico per vivere. Da quel momento, ogni cosa ora sa di torta di mele e di acacia. Anche se non so bene il gusto dell’acacia.
Ma so che è lì, sotto la mia lingua di tumori immaginati.

Accanto al comò, dietro la quercia secolare, si nasconde il biglietto che mi regalerà Tullia. Che nome terribile: Tullia. Sa di vecchia. Vecchia la madre prima di esserlo. Puzza di scale nobiliari. Tullia si siede davanti a me e inizia a parlare piano. Non c’è nessuno nella stanza e nemmeno a tenere il filo dei miei pensieri, ma lei parla piano. Arriva la notte e io non ricordo una parola di quello che mi ha detto. Arriva il giorno e dubito che sia venuta. Arriva la notte e io di Tullia so tutto, ma non il cognome. Penso sei giorni al suo cognome, cagandomi nelle mutande, vomitando, contorcendomi per i crampi allo stomaco e perdendo sangue a ogni colpo di tosse, e, nonostante la medicaglia attorno a me parli di lacerazioniinfezioniègravesecontinuacosì, so che è il mio dimenticare il suo cognome a farmi tutto questo. Sono io la causa di tutto questo. Nessuno lo capirà.
Ricordo il nome di Tullia mentre nella televisione della mia camera passa una pubblicità di coltelli da collezione. “È sempre stato nella mia pancia, cercava di uscire” mi illudo. Ma non è vero. L’avevo dimenticato. Si sente che da lontano qualcuno ha fatto qualcosa. Il sonno preme. Cedo.

Tutto è immobile, oggi. Le carte che ho sulle gambe mi ricordano di essere qualcosa di vivo e le riposo subito sul comodino, di fianco al letto. Ora cammino. Mi sento confuso, ma non è vero. So poche cose e non ne voglio conoscere altre. Mia madre arriva da sinistra e mi prende. Prendo la mia valigia ruvida marrone ma non troppo scura e saluto i medici. Usciamo dall’ospedale. Fa troppo freddo per me. In macchina sento il bisogno di tornare in quella stanza. Appoggio la mano sulla maniglia. Mia madre sta girando in una rotonda. Non ho la cintura. Apro la portiera e porto il peso verso l’esterno.

Non sono felice. La camera non è più la stessa, e per stare qui, tanto vale rimanere a casa. Dico ai medici che quando tornerò a casa diventerò un artista, ma non farò vedere a nessuno le mie opere. Dipingerò e scriverò musica. Non canterò, la mia voce spezzerebbe i vetri. Detesto la mia voce. Ho sempre desiderato essere muto, senza mani e nemmeno senza piedi. Immobile su un divano. O per terra. Senza sensibilità. Morto. Ma non ancora. Poi però penso a quanto faccia male un unghia rotta. E penso a quanto sono codardo. Non riuscirei mai a essere felice come vorrei esserlo, a mio modo. Non essendo assolutamente niente.
Quando mi riportano a casa, mi dicono che non posso scendere dalla sedia a rotelle.
Perché? Se sono paralizzato, sono paralizzato anche sul pavimento.
Dicono che devo stare sulla sedia. Guarirò. Non sono paralizzato.

A tavola non parla mai nessuno. Mangiamo uno di fronte all’altro ma non diciamo una parola. È sempre stato così. Quando parlo con altri e mi sento dire: “Ne parlavamo proprio ieri a tavola” mi viene spontaneo rispondere: “Ah, perché voi parlate?” Passò la mia giornata in silenzio, cercando di annullarmi. Non parlare, muoversi poco. A volte mi dico che dovrei scaraventarmi addosso alla vita e farmi scaraventare via da essa, ma rimango immobile. Mastico.

Ho scoperto Pink Moon. Ora ascolto solo quel disco. Da tre settimane. Potrei chiamare la musica Pink Moon. Credo che lo farò, un giorno. Quando più nulla mi terrà su questa terra.

I limiti, ora, sono la mia ossessione. I limiti delle cose, dei quaderni, degli oggetti nella mia stanza, in cucina, in cantina. Studio i limiti di ogni singola cosa che vedo, tocco, o penso. Tutto ha un limite. Perfino il pensiero. Tutto ha una fine. Un bordo. Lungo i bordi faccio scorrere lentamente le mie dita. Memorizzo i limiti. Le loro immagini. Tutto il resto non mi interessa, tanto dovrà finire a ridosso di un bordo.

Il mondo fuori da me si spegne. Non mi interessa più sapere cosa accade. Né cosa vogliono gli altri da me. Il buio. Spegniamo le luci. Ma io non vi sfido. Non vi vedo.



[non so manco bene io cosa sia, l'ho scritto qualche mese fa, di getto, più per il ritmo delle frasi che per un senso vero e proprio. Non c'è il titolo per il solito motivo]

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