sabato 3 dicembre 2011

Cantavano da loro

Pensavo, prima, mentre facevo la doccia, alla cattiveria. O meglio, a Ligabue.
Mi è tornato in mente che Ligabue qualche anno fa aveva fatto un concerto, a Campovolo, dove, si diceva, fosse riunita la più grande folla di spettatori di sempre, per un concerto, in Europa. E quella notte lì, gli sono entrati in casa i ladri, a Ligabue. Che, pensandoci un po’ sotto la doccia, è stata una cosa cattiva: cioè, nella sera in cui tutti stanno guardando te, in cui tutti parlano di te, in cui l’attenzione dei media è tutta su di te, noi ti portiamo via tutto da casa; nel giorno in cui tu stai facendo un botto di soldi, noi te li facciamo spendere, almeno un po’, per riarredarti casa, bastardo, avran pensato i ladri. O forse no.

Fra l’altro, si dice che quel concerto lì fosse stato un mezzo disastro, perché il posto era talmente grande, che tantissima gente non aveva sentito niente, e, si dice, ancora, che a un certo punto della gente avesse iniziato a cantare delle canzoni di Vasco Rossi; tanto, non si sentiva niente, allora cantavano da loro. E pensavo all’umore di Ligabue il giorno dopo, il concerto a Campovolo. I ladri in casa, le lamentele che iniziavano ad arrivare anche sui giornali, nelle televisioni e su internet, i ladri in casa, la gente che cantava Vasco, il sentirsi un po’ un coglione, i ladri in casa. Che giornata di merda, dev’esser stata, per Ligabue, quella giornata lì.

A me una volta piaceva, Ligabue. Quando avevo circa tredici, quattordici anni. Poi no, poi basta, poi uno cresce e si evolve, va verso altre direzioni. Menomale, direi. Ligabue piace anche a mia madre, che è, si potrebbe dire con un termine che un po' mi ripugna, una sua fan; e infatti il dvd del concerto di Campovolo io a casa ce l’ho, gliel’avevo regalato per Natale, e a vedere da lì, dal dvd, sembra che tutto vada benissimo, che tutto fili che è una meraviglia. C’erano quattro palchi, messi tutti attorno al pubblico, e mano a mano che il concerto andava avanti Ligabue correva da una parte all’altra a cantare delle altre canzoni, e a me era sembrata una cosa un po' lunga, a dire il vero. A un certo punto verso l’inizio Ligabue dice anche: ah ma allora è vero, ci siete davvero. E si sente un boato pazzesco del pubblico. Insomma, lì non si capisce, che in quella serata ci fossero tutti i preamboli per una giornata di merda.

mercoledì 16 novembre 2011

Un modo per uscirne - (appunti da Londra)

che con la sua nebbia, le sue anfetamine e le sue perle mi aveva lasciato il suo fiato nelle orecchie e dodici rivoluzioni ancora da metabolizzare. Ci cadevano addosso le verità nascoste male. ma avevamo il coraggio di non ricacciarle più di nuovo su. di darlo a vedere, che era tutto sbagliato. Adesso a fine gennaio dici che parti. E ci sono quelle mattine dove uno si sveglia e si chiede perché sta facendo la vita che sta facendo. poi però non è detto che cambi qualcosa. programmiamoci i viaggi. totalmente fuori tempo. e non cerchiamoci la scusa del controtempo: siamo totalmente fuori tempo.
ci sono cose che danno salvezza, come Jeff Buckley che canta Just Like A Woman. come certi blackout. E avrei delle domande da pormi. dei rumori di sottofondo.





Viaggiare sopra le macchine, le luci bianche e gli ingorghi. fra le strisce di notte che si vedono dai finestrini appannati. E l’azzurro gessetto di questo mattino sovrannaturale.

C’è un verde con una luce in centro. Ho scoperto che Geogaddi è il disco perfetto per viaggiare in aereo. è musica da occhi chiusi sopra il cielo. di arrivi e ritorni. Di colori che scompaiono.

Ho un letto a Londra, cosa voglio di più?

domenica 13 novembre 2011

Istruzioni per farti un caffè d’orzo alle due di notte

Allora. Scendi di sotto, ricordati d’abbassare un po’ il volume della musica che con la riproduzione casuale non sai mai cosa può capitarti e puoi svegliare i tuoi. Poi niente, vai in cucina e apri il frigo. C’è una caraffa, nel frigo; cioè non è una caraffa, dipende cosa uno intende per caraffa, che poi a pensarci non è che ci sia molto campo libero, per definire una caraffa, una caraffa è quella e basta: facciamo prima a dire che non so come si chiama, quella cosa dove tu ci metti l’acqua del rubinetto, lei ha tutto un meccanismo di filtri che la depura e ti esce l’acqua pulita che la puoi bere tranquillamente come fosse quella delle bottiglie. So solo che è comoda perché è piatta, che tu la metti per lungo nello sportello del frigo e lei ci sta da dio. Comunque, prendi questa presunta e provvisoria “caraffa” e la poggi sul piano cucina. poi apri l’anta delle tazze e speri che ci sia la tazza che piace a te, quella più grande, che si allarga salendo, quella dove ci sta più acqua, che se non c’è quella tocca prendere quelle normali, quelle che non si allargano salendo, son sempre larghe o strette uguali, e lì dentro ci sta meno acqua ed è un po’ una sofferenza. Apri l’anta e vedi che non c’è, la tazza che vuoi te, allora apri la lavastoviglie e speri che sia già stata lavata e appena la apri senti quel caldo, quel tepore, che c’è quando la lavastoviglie ha finito da poco di lavare, e sei contento, e prendi la tazza che vuoi e la riempi d’acqua, quasi fino all’orlo, come sempre, attenzione però a non riempirla troppo che conta che ci devono ancora stare due cucchiaini di caffè d’orzo e tre di zucchero più il cucchiaino, che son cose che uno non ci pensa, ma fanno volume. Allora prendi la tazza la riempi d’acqua e la metti nel microonde, controlli che il microonde sia alla temperatura massima e imposti al timer a due minuti spaccati. Niente, poi il microonde fa tutto da sé, non c’è bisogno di stare a guardarlo.

Nel frattempo è meglio se inizi a prendere il pane, e a guardare nel sacchetto se c’è una fetta tagliata o no, se non c’è la tagli, logico, questo è scontato, ma se c’è già, una fetta tagliata, la prendi e la metti sul piano della stufa, che è ancora caldo e così ti si griglia il pane, che è una cosa commovente, il pane caldo un po’ croccante, secondo me. Poi ti ricordi che mentre prendevi il pane hai visto che tua madre ha di nuovo preso quella specie di nutella, solo che non è nutella, è una crema al cioccolato fondente, che detta così, se ti piace il cioccolato fondente, sembra una bontà, poi la apri e vedi che è tutta fiorita.
Fiorita nel senso che, sulla superficie, di questa crema che si chiama Nutkao, e quindi suppongo abbia anche delle nocciole dentro, ci sono tutti dei fiorellini, diciamo, di Nutkao, come se il grasso del cioccolato fosse venuto su, che è una cosa abbastanza normale, se ci pensi, anche l’olio lo fa, però non è che ti fidi molto, che già l’altra volta, quando tua madre aveva preso la Nutkao c’erano dei grumini bianchi, che lì era proprio sicuro fosse il grasso del cioccolato, però santo dio, che schifo. Meglio non prenderla più eh, sta Nutkao. Devi ricordarti di dirlo a tua madre, domattina, e anche di chiederle come mai l’ha ricomprata, visto che l’altra volta bla bla bla. Ma dove la fanno sta Nutkao, in Romania? Comunque, nel frattempo che pensi tutta sta roba ti viene in mente di prendere un cucchiaino e di portare via la parte fiorita, solo che scopri che poi anche sotto è un po’ tutta così, sta nutkao, però un po’ meno. Bah. Poi vai dal lavandino a pulire il cucchiaino, apri l’acqua e fai scendere la Nutkao nello scarico, solo che è densa, non scende mica, devi spingerla un po’. E ti viene in mente che, è brutto dirlo, e pure pensarlo, ma è proprio uguale alla merda, vista così.

Nel frattempo son passati due minuti e il microonde ha finito, suona, allora tiri fuori la tazza, la metti sul piano cucina e continui a pulire il cucchiaino, e, non si sa perché, senza nessun motivo evidente, ti viene in mente, mentre sei lì chino sul lavandino, quella ragazza a Londra con la quale ti sei fatto una figura da stronzo che metà basta, come si dice. Che praticamente eri entrato in questo localino, a Camden Town, mentre giravi per il mercato, che chiamarlo mercato uno pensa ai mercati che ci son qui, no no, lì è una cosa enorme, c’è di tutto lì, dai negozi alle bancarelle, di qualunque cosa, che se uno non ci è mai andato non può capire, se uno ci è andato ha già capito, quindi è inutile stare qui a spiegare, ma dicevamo, eri capitato in un localino dove si poteva entrare tranquillamente senza pagare nulla, che era sulla stradina del mercato, e in questo locale c’era un gruppo che suonava, e tu eri stato un po’ lì ad ascoltarli, non è che ti piacessero molto, erano un po’ mosci, un po’ anonimi, però comunque eri rimasto perché eri convinto, o almeno ci speravi, che quella fosse una band famosa, non tanto, un po’ famosa, che tu non avevi mai visto in faccia, e che a un certo punto si presentassero e dicessero, ciao, grazie a tutti, siamo i cosi, e tu avresti pensato, nooooo, i così, non posso crederci, qui a Londra, per puro caso li ho beccati. E niente, sarebbe stato un bell’aneddoto da raccontare.

Mentre che eri lì a sentire questi tre suonare, ti si era avvicinata una ragazza, molto carina, bionda, con un cappello in mano, ed era venuta vicino a te e ti aveva detto qualcosa in inglese, solo che con la musica alta non avevi capito quello che t’aveva detto, allora le avevi chiesto se poteva ripetere e lei te l’aveva ripetuto, quello che aveva da dire, solo che non avevi capito di nuovo, che secondo te quella ragazza così carina non era inglese, parlava inglese ma non era inglese, era islandese, secondo te, quella ragazza lì, infatti non si capiva bene cosa diceva, poi con la musica alta, lascia perdere. E comunque alla seconda volta ti era sembrato brutto chiederle di ripetere di nuovo e allora avevi pensato di fare il gentile e di sorriderle e di farle il più gentilmente possibile il gesto di no grazie, che era una risposta un po’ vaga, che poteva adattarsi a mille occasioni. E lei aveva fatto una faccia stupita, come se non se l’aspettasse, e ti aveva chiesto: no?, e tu le avevi risposto, ma tranquillamente, gentilmente, no. Di nuovo. E lei ti aveva detto, oh, ok. Ed era andata via.

E poi avevi capito che era la ragazza del cantante del gruppo che stavi sentendo che stava raccogliendo un po’ di soldi per il gruppo, tipo offerta libera, metti quanto vuoi se ti piace il concerto, e tu le avevi detto no, così candidamente, con quell’aria della serie: non mi faccio problemi a dirti che il tuo ragazzo fa veramente schifo e non gli darei nemmeno mezzo pound. E infatti c’era rimasta male, che di solito uno qual cosina lo da comunque, anche se non è particolarmente entusiasta dello spettacolo. Tanto per il gesto. E invece no, l’avevi guardata con la tua aria da stronzetto, o meglio, con quella che lei aveva percepito come un’aria da stronzetto e le avevi detto di no. Bello stronzo, davvero. Ti eri sentito proprio una merda, nel momento in cui avevi realizzato. E allora, mentre sei lì chino sul lavandino a pulire un cucchiaino, ti viene su un rimorso durissimo tristissimo e ti vien da chiederle scusa, ragazza bionda forse islandese, scusami se sono stato uno stronzo, mi dispiace davvero ma non avevo capito, c’era la musica alta, fra l’altro il fonico doveva esser anche stato un’incapace perché erano in tre, chitarra acustica, chitarra elettrica e percussioni, cioè, non percussioni in generale, era un cajon, comunque, erano in tre e la chitarra elettrica non la si sentiva per niente, quindi davvero, ragazza carina, non si capiva niente, non volevo fare lo stronzo, scusami.
Intanto hai pulito tutto, lavandino e cucchiaino, e mentre che ti facevi tutto questo ragionamento mentale non ti sei accorto che, chissà perché, muovendoti, hai chiuso il Nutkao e l’hai rimesso nella credenza, allora te ne accorgi e apri il frigo per riprenderlo, poi ti rendi conto che hai aperto il frigo per niente, lo chiudi, apri l’anta della credenza e lo prendi.

Solo che è veramente denso, allora che fare? Ci pensi un po’, poi lo metti dieci secondi nel microonde, per vedere che succede. Sì, va bene, altri venti, così si ammorbidisce. Nel mentre prendi il caffè d’orzo, nel metti due cucchiaini, prendi lo zucchero, ne metti tre cucchiaini, guardi lo zucchero e il caffè che piano piano sprofondano giù nell’acqua calda, e mescoli.

Poi prendi il barattolo di Nutkao, che cazzarola, si è quasi sciolto, ma fa niente, lo spalmi sulla fetta di pane, ripulisci tutto, ti mangi la fetta di pane, buona, ci può stare, e con la fetta di pane in una mano e la tazza nell’altra te ne vai dalla cucina, spegni la luce attento a non sporcare niente, risali le scale, spegni la luce delle scale, entri in camera.

Poggi il caffè d’orzo e chiudi la porta.

venerdì 11 novembre 2011

Un inizio di una fine

Ho iniziato a scrivere una cosa che, se tutto andrà bene e se mai riuscirò a finirla, dovrebbe essere un po' lunga. Questo dovrebbe essere l'inizio:


Succedeva sempre che, a un certo punto, si finiva in macchina a parlarne.
ed era una ricorrenza, una specie di rituale privato. Ci si capitava nei modi più disparati, e si piombava su quell’argomento dalle vie meno sospette di un discorso qualunque. e il succo era sempre quello: che così non si poteva andare avanti.

Succedeva sempre che, a un certo punto del discorso, si distribuissero le colpe come le parti di uno spettacolo più o meno definito, che finisce sempre allo stesso modo. e che non finisce mai.

E si andava avanti lo stesso, di notte in notte, a pensare che forse era finita, però cazzo, se soltanto…

Succedeva sempre così, nei nostri discorsi notturni.
Fino a quando è successo davvero. e forse non ce ne siamo nemmeno accorti.

giovedì 13 ottobre 2011

Iniziare una Moleskine

Non c’è nessuno su sto treno del mattino, a tornare a casa. Ma c’è una luce nel giallo delle tende, da piangere. E questa mattina c’era ancora la nebbia di ieri notte, ancora più densa e spessa, che stava sospesa sopra le rotonde e mi spaventava mentre guidavo. E a un certo punto, sempre ieri, mi è venuto in mente che ogni pensiero è una spina nel fianco di Cristo. E hai gli occhi persi, oltre il mio sguardo. e la tua testa è pesante. che ultimamente stanno passando anche gli scoglionamenti, ma mi sembra che tutto sia venuto via un po’ slavato. Altri Libertini di Tondelli fa scattare l’antifurto in Feltrinelli e non si capisce come mai. E mi ricordo che il primo giorno che ho ricominciato l’università, stavo tornando a casa, in treno, e a un certo punto ho guardato fuori dal finestrino e ho visto, così, in mezzo al verde, uno stendino, bianco, vuoto, ed era bellissimo.

È un periodo che non scrivo più e che ho ricominciato a leggere, a stare bene in casa; che ho smesso di lavorare e mi sono reso conto di quanto fosse brutto, e prematuro, in un certo senso. e vaffanculo a tutte le migliaia, davvero migliaia di persone che ho chiamato in questi, quanti sono?, uno, due, tre, quattro, quattro mesi e una settimana di lavoro. E ora ricomincerò anche a studiare e magari mi darò una mossa, e darò qualche esame e al più presto mi comprerò un basso o una chitarra acustica. e non vedo l’ora che arrivi l’inverno e la neve, con le felpe e le giacche lunghe e tutti gli sbrinamenti in casa, le serate gelide e i pomeriggi bianchi, interminabili. Che arrivi l’inverno con tutta la sua premura, che sento che le cose stanno cambiando, anzi sono già cambiate e questa volta non sarà come un anno fa. Ci sarà più gente e meno solitudine, meno depressione. Rimarranno sempre il sonno e l’insonnia, le levatacce e i respiri pesanti, e i ritorni in treno da solo; rimarranno le stazioni e le canzoni, gli innamoramenti. E forse ci sarà qualche amico con cui chiudersi in casa la notte della vigilia. E magari riuscirò a smettere di magonare. Ma forse no. In fondo... vediamo com’è essere innamorati d’inverno.

lunedì 26 settembre 2011

Ossi

I miei pensieri oggi puzzano di pennarello indelebile. e la tua testa è troppo interessante per essere così semplice. Mi affili la curiosità. mi affili la curiosità.
In cima al coma. guardavamo giù, e i nostri portafogli erano pieni di sangue. Seduti, in bianco e nero, su una macchina ferma sotto la pioggia.
Nei miei occhi ci sono dei cali di corrente. e la strada sembra sciogliersi anche se faccio i centoventi. Io e te ci siamo quasi distrutti la testa. . I nostri muri del pianto che crollano. e l’infinita infinità dell’infinito. I nostri muri del pianto in macerie. e una scatola di pesche piena di pietre in borsa. mentre continui a raccogliere piume ovunque.
Andare al di là dell’al di là. fra le pause e i solai. Anniversari di litigi e di scazzi salienti. come quella volta che avevate litigato per quei trecento euro di merda. e non siete mai tornati.

venerdì 23 settembre 2011

Heaven on Earth

C’è una canzone degli Spaceman 3, si chiama Walkin' with Jesus. Parla di come trovare il paradiso in terra e di come non sia così male sapere di sbagliare. E i nostri abbracci è un periodo che non si incastrano più.
Sono giorni che non sembra mai il giorno che è, e l’amplificatore che ho in camera sembra l’unico tipo di arredamento che io abbia. I tuoi capelli che sono nastri di carbone. E tutte le ombre e i freddi azzurri che ci aspettano.

mercoledì 21 settembre 2011

Un inizio

Entra, striscia via. Solito ragazzo maniche lunghe felpa grigia freddo addosso. Lo guardo muoversi fra gli scaffali, apricchiando qualche libro, cercando alla veloce qualche autore, guardandosi intorno. È tornato l’inverno e finalmente mi sento di nuovo al caldo. E ieri sera ho capito che i primi due dischi dei Liars saranno i miei dischi dell’inverno. This dust makes that mud. Trenta minuti buoni: sempre la stesse tre note in croce ripetute all’infinito. Scalderà.
Prende un libro in mano, inizia a leggere. I, I, I, I. Want to be a horse. In questi giorni mi torna sempre in mente Agota Kristof e quella meraviglia di durezza che è La trilogia della città di K. We are the army you see through the red haze of blood. Sembra inquieto. Esce.

mercoledì 14 settembre 2011

Soft silly music is meaningful magical

I nostri occhi sono chiusi, perché le nostre strade del ritorno sono sempre piene di tir a luci spianate. e i rami che ti escono dalla bocca sanno di inchiostro e di fumo. Un giorno moriremo anche noi. e anche le nostre ceneri voleranno da un aeroplano sopra il mare. Le nostre aree verdi interiori. e le provincie dei nostri rapporti umani. Dici che la tua posizione ideale è fra il bianco e il nero. E gli occhi appoggiati sui rami ci squadrano tranquilli.
Tre euro per tenere accesi i nostri discorsi con quaranta candele colorate. Le alte e le basse maree. che alla fine tra i ciottoli rimane sempre qualcosa. I segreti nascosti, abbottonati stretti in una giacca. Com’è strano essere assolutamente niente.

giovedì 8 settembre 2011

Azzurro carta da zucchero

Oltre il concerto e la necessità di sviluppare la delusione legittima del cervello, tu in fiamme, fra le sbarre. Avviso agli imprudenti. L’eternità tascabile diceva di esserti amica. ma bisogna fingere. fingere d’avere altre intenzioni. Ossa e acqua passate. E delusioni e ritorni. e tangenziali di pensieri. Dentro l’orlo della tua pelle ci sono dei grumi di fili e dei nodi. …Siamo all’ognuno per sé: sei un ognuno o un per sé?... Il fatto non ha importanza, e l’ascendente neppure. Bustine di fiammiferi per mantenere vivo il tuo braciere. aspetto un ritorno di fiamma.

mercoledì 7 settembre 2011

Pulci

È una divertentissima cavalcata, al suo secondo atto. Parto dal fondo, come dipinto dalle mani di tanti fanciulli. …anche per me era una cosa mostruosa il disonore di fabbricare il mio benessere… Scommetti su un nome, uno solo, ma se nel racconto c’è parola che zoppica, chiusa, ostinata, chiedi due volte, illumina la tua conoscenza. Per le spose bambine lo sfogo del pianto provoca un bisogno di fuga che sottintende un’ansia esistenziale. Uno spessore di circa tre millimetri, a causa della catastrofe.
Dell’accidentale e dell’incoerente. c’è da domandarsi quant’è vero Dio.
Per lo smantellamento dei missili si giunse a un accordo attraverso il quale trovarono un minimo comun denominatore per poter liberare le proprie lisergiche impressioni e fantasie. E anche stanotte fa freddo e ti sembra che crescano scarpe e vestiti sugli alberi. Mille incidenti. mille incidenti. e solo pochi scorticamenti. però alla fine c’è stato il lieto fine: sono morti tutti.

martedì 6 settembre 2011

Tutto ciò che ha causato la pioggia

Piovono siringhe sulle tue colonne vertebrali giornaliere. E le gatte che arrivano le mattine dopo gli incidenti nei fossi. hanno gli occhi verdi trasparenti. Ed il bello è che io e te ci diciamo tantissime cose e per il momento è meglio che non ne parliamo. E per strada scivolavano le macchine. sbandamenti su sbandamenti. e portiere ammaccate e mille sbattimenti. Vorrei rubarti delle frasi. e non solo quelle.

sabato 3 settembre 2011

Oceani

Le carezze violente. le tue scarpe volanti. I nostri bagliori migliori. sono stati sempre di notte, di fretta. E a proposito di noi. a proposito dei nostri oceani. delle falene che sbattono tutte le notti contro il vetro scuro dei tuoi occhi. e cercano una via d’uscita.
Tanti avanti e indietro per i solchi delle corsie d’ospedale. E l’infinito che ho disegnato sul polso destro continua a non andare via. Torneremo a scorrere. torneremo a scorrere. torneremo alle nostre vite invernali. maledetto inverno. davvero maledetto inverno.

giovedì 18 agosto 2011

Notte

Ci porteranno via, perché in fondo qui non abbiamo un cazzo da fare. se non suonare. le nostre chitarre da rischio e da rissa, aspettando elicotteri. su croci bianche d’atterraggio. Parliamo in sincronia perché io e te da qui ce ne andremo via insieme. Appostati negli angoli e sui cofani delle macchine, con la musica alta e delle pressioni dentro la gola. da scartare in silenzio, più tardi. Le mille occasioni che perdo e certe cose che stanno succedendo, che mai avrei pensato. Un Tiziano rinchiuso in una banca. da avvistare di notte dietro un vetro offuscato. con la luce come in una chiesa. Stavano smontando la città mentre parlavamo, ma più che tutto noi leggevamo Paolo Nori. E volano le penne sugli elicotteri e noi ce lo dimenticheremo. E anche questa si chiama malattia. anche questa sarà un’altra periferia. tempo di miserie e tempo di pulsazioni. tempo di miserie e tempo di pulsazioni. delle piccole storie, delle teste pensanti, delle vite spezzate, ricucite alla cazzo. e non si torna a casa, si rimane così, si rimane così, si rimane così. Non cantare quello che ti chiedo. e non mi chiedere quel che penso. Il tuo sorriso che ogni tanto sembra crollare. e spegni sigarette come sogni. E abituati perché sarà sempre peggio. sarà sempre peggio.

martedì 2 agosto 2011

Miriadi di vene

Andremo a Londra. anche noi. lasciando a casa i sogni per evitare gli ingorghi.
Gli occhi da foto. Dimmi come firmi e ti dirò chi vuoi essere.
La polivalenza di certe parole. che sono come cuori che spingono miriadi di vene di significati.
Persi, di notte, salendo invece di scendere, con la benzina a terra. avevamo trovato un ospedale. ed eravamo felicissimi. I divieti di sosta nella tua testa. I tuoi improvvisi arrossamenti negli occhi. che fluivano giù.
in basso.
verso sinistra.

giovedì 28 luglio 2011

Non fa male, non fa male.

Oggi è morta Agota Kristof, è la peggiore estate di sempre.
Ci sono dei riverberi. come quando ho salutato il decennio con un mare di ronzii. feedback. sciabordii di suoni e rumori incontrollati. L’impalcatura di un palazzo in miniatura costruito col fil di ferro.
Nessuno si è accorto di lui quando è entrato. semplicemente è salito sul palco con le sue bretelle, le sue scarpe da ginnastica fosforescenti e la sua chitarra. la giusta dose di pregiudizio necessaria alla fulminazione. Che ancora adesso ci sono degli organi che suonano negli angoli, ogni tanto.

Oggi è morta Agota Kristof. Bastardi. bastardi tutti.

mercoledì 27 luglio 2011

Serate

E i cani che urlano. Le costruzioni immaginarie. Linee in bianco e nero. e scritte luminose sopra tutti i nostri pensieri. Avamposti minati. Biglietti, che sono come messaggi d’aiuto. che escono dalle tasche dei jeans e ti dicono che manca sempre qualcosa. come se una canzone non potesse cambiare un paesaggio. Evitami le strade lunghe, i percorsi abbreviati. Evitami i disastri imbanditi e le serate ammosciate. Disegni inconcludenti sopra fogli che non sono miei. E questa farneticazione è per i distributori di medicine ai bordi delle strade provinciali. per gli appunti presi sulle cartine. per i nostri alberi che fumano. per le ragazze tempesta. per la voce di Bob Dylan in Moonshine Blues.
Tenevi lontani i pensieri con aureole d’alcool. e i Jesus and Mary Chain erano sempre adatti. sia d’estate che d’inverno. per dare senso ai nostri viaggi troppo brevi.

giovedì 21 luglio 2011

Vetro sottile

A degustare dei petali di rosa invetrati. seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi. 7 agosto di pomeriggio, e non una buca da stanare per queste mani fredde. Mettiamo il freno a mano ai pensieri, alle collere e ai desideri. I paraffi alle nostre illusioni. Fra le lamiere roventi di un cimitero, solo io silenzioso, eppure straordinariamente vivo. L’incazzatura cattiva che mi sale quando non trovo più un cd. e smonto stanze e sfascio letti fino a quando non lo trovo. Pile, plichi e cavalli. Annunci pubblicitari di mamme piangenti e di strisce di denti. E questo è l’anno del garofano rosso e dei soli nascenti. delle grandi aspirazioni. Inspira per rilasciare degli odori nella tua gola. Davanti ad un distributore automatico di fiori e di giorni migliori, anch’io rinchiuso in una bolla di vetro, nell’aeroporto di Bruxelles.

venerdì 15 luglio 2011

Un altro improvviso

[voce di sottofondo: mi raccomando mi raccomando, pensa a divertirti, mi raccomando,]


ci salveranno dalla tristezza con dei badili e delle vanghe da collezione, armadi d’oro e stelle da colazione, ricoperti di tele incerate ci aggireremo per i parcheggi delle stazioni come dei fantasmi troppo sporchi per se-ne-andare o come i raccoo-oo-oon come me li immagino in questo momento. Maometto che piange all’entrata di un parco e tutti i tuoi nervi da rivisitare. Anni e anni di superiori e poi di altri superiori . come abbassare a livello marciapiede una persona da incartare. e non sai che ti fa male, che i polmoni sono come spugne secche da tre mesi, che se le bagni le senti riprendere a respirare.

Improvviso per nuova macchina da scrivere

Niente panico, mi raccomando, niente panico, come mantenere la salvezza senza compromettersi gli dei migliori, e tornare a casa sani e salvi da serate che sono come il pane appena sfornato, ricoprirsi di amuleti e salire in macchina, da soli, col sale sotto gli occhi e i dischi giusti per muovere il paesaggio, che è come una tendina in un film, si muove solo se ha un senso, che se piangevi era per la congiuntivite e tu non avevi proprio nulla da spartire con noi, proprio nulla, poi però, come sempre, come sempre, i ritardi e le attese, le fermate dei treni mattinieri, con la luce che risale dai binari e tira dritta verso il cielo, senza perder tempo, che tanto non ti guarda, non ti guarda nessuno, non preoccuparti, ricomincia a parlare piano, che ti sentiranno meglio da lontano e avranno poster e stelle d’oro, luci filanti e prezzi da pagare, come una storia da raccontare a dei nessuno immaginabili, e presto anche le carpe torneranno scarpe e tutto quanto si riaccenderà mogio, a tratti di miele e di tempesta, una catenella dentro la testa, ti strapperà i pensieri corti da quelli fradici e staremo tutti seduti su dei marciapiedi ad aspettare di marcire insieme in allegria, come del vino da tristezza

giovedì 14 luglio 2011

Immaginazioni

...i ronzii

e le esplosioni.

tutto un sovrapporre di parole e immagini.
Suoni che friggono sotto gli occhi.
Musica da cecità.

Gli ipotetici immaginari viaggi al mare, in macchina, che mi faccio con Ocean Songs dei Dirty Three. e immaginare anche il paesaggio a sinistra della mia testa.
ai settantallora.
che scorre via.

venerdì 8 luglio 2011

Musica da salvezza

Di quella stanchezza che ti straccia i capelli. che non puoi fare altro che rinchiuderti in casa con la tua musica e scegliere i vinili e i dischi giusti ( quelli che lucidano le ossa) e sperare che tutto vada bene. Di quella stanchezza che ti ammazza sui sedili dei passeggeri, mentre fissi un buco che ha i colori della strada. Di quella stanchezza che ti tira giù. come nel cesso di trainspotting. Che quando finisce un lato di un vinile ti sembra sia finita un’epoca, e invece non è niente.

Rodersi il fegato. perché non si è riusciti ad andare a dei concerti a cui si voleva andare e dei quali però si è visto il check al mattino ed è stato bellissimo.

Legno. che scende dalle corde di una chitarra e lascia tracce per i bar di tutta la città, degli avvistamenti così rari che sembrano privati. I difetti che ti fanno diventare una brava persona. Ripercorrersi fra i messaggi inviati sul cellulare. e spiare dei musicisti. salutarli. seguirli per strada.

martedì 14 giugno 2011

Tu che torni

Migliaia e migliaia di parole lasciate in macchina. liberate al buio e lasciate a ficcarsi nei sedili.
Tu che torni. con una canzone a ripulirmi certi pensieri alti e stupidi. in un disco scheletrico e pieno di vuoti, di mediterraneo e di ombra assolata.

giovedì 9 giugno 2011

Quaranta watt

Le microfratture nelle nostre mani. tutti i giorni. I problemi agli occhi di Van Gogh. che vedeva il centro delle cose deformato. le sue ansie. Dei denti bianchi e quadrati che ho disegnato. delle dediche a dei nessuno innumerabili. e delle penne blu. come degli argini con poca selettività. La poeticità dei suicidi. dei cuori disegnati. dei cuori blu. è un periodo che non so mai che musica ascoltare. e il mio isolamento dal mondo trasmesso è ormai completato. L’amore per i plurali. Il ronzio del mio amplificatore che quando lo spengo crea un vuoto nella stanza. I vuoti non-a-rendere delle mie giornate. come quando mi annoio anche della noia. Certe frasi o certe parole che canto sempre nelle canzoni. Faccio promesse notturne a me stesso di giornate impegnate e operose, svegliandomi già al mattino con un ritardo colossale. Dopo, quando rileggo tutto, manca sempre qualcosa. Come ogni volta che rileggo una mia cosa vecchia, che mi faccio sempre schifo. La salvezza che mi danno certi vinili. Che se pioveva era perché avevamo bestemmiato troppo. L’aria che c’è dentro le lampadine, che non c’è. Ne tengo una in gola, sotto la lingua, e non è per schiarirmi le idee. che la ragione, no, quella magari lasciamola perdere.

martedì 7 giugno 2011

Come Don Chisciotte prese la tonsillite. come si ruppe le mascelle. A morsi di rabbia e di stelle. noi anime belle. scrivevamo delle nostre aridità sui ghiacciai. E la mattina pioveva e i Pontiak avevano poco da fare, se non arredare. il paesaggio. fuori dalle nostre finestre. Spinoza di Paolo Nori ancora da finire perché non lo voglio finire. e forse su di lui farò una tesi di laurea. Voglio andare a Londra e scrivere su dei quaderni. passare la notte a respirare l’atmosfera londinese e scrivere pensieri stranieri. Ugo Cornia che mi cambia il modo di vedere le curve. Questo periodo in cui mi stanno ricrescendo i capelli e mi sembra di tornare. E quella volta che sono scoppiato a piangere ascoltando il primo disco dei Velvet Underground. Il conforto che mi da una scatoletta di metallo sulla scrivania. Quest’oggi ha senso anche solo per il modo in cui risuona nell’aria la voce dell’ultimo dei Fleet Foxes. che sembra cadere dal cielo. che sembra uscire da una grotta illuminata. Arriveremo anche noi ad altre conclusioni, ma adesso lasciateci tempo. lasciateci tempo. Ho ritrovato un documento word nel mio computer. Dice: “Ho crampi ovunque. Crampi alle braccia, crampi alle gambe. Oggi ho visto un video, su Youtube, di Emidio Clementi che legge il primo capitolo di La qualità della vita, di Paolo Marasca. È un attimo, e un uomo si butta sotto il treno. Sangue, coperte, caffè caldo per tutti. È il quarantesimo compleanno del protagonista, e sta andando a un funerale. Quel video mi è rimasto in mente tutta la serata: il modo in cui Clementi legge, la velocità con cui tutto accade. La bellezza di una una cosa brutta. Oggi finalmente sono andato in Via Pinelli.”

sabato 4 giugno 2011

Einsturzende Neubauten - Appunti

tempi d'e/oro

Inizia tutto male. Il treno per Carmagnola delle 18 30 ha 40 minuti di ritardo, bisogna prendere quello per Cavallermaggiore e aspettare. A Cavallermaggiore due vecchi parlano da un binario all’altro. All’inizio mi sembra che parlino in piemontese, poi capisco che non è piemontese, è un’altra lingua. Sembra una scena teatrale. Uno era già lì seduto sulla sua panchina, sul binario uno, chissà da quanto, e l’altro arriva con un treno, che poi è quello su cui ero anche io, si siede per aspettarne un altro, e solo dopo un po’ si accorge del suo conoscente dall’altra parte. Il bello è che tutto questo lo sto scrivendo in presa diretta, mentre accade: i due stanno ancora parlando. Attenzione, treno in transito sul binario tre, allontanarsi dalla linea gialla. I due uomini si fermano ancora prima che arrivi il treno. Una volta passato non parlano più.

Bisogna cogliere la fine quando arriva, con prontezza. Sapere chiudere una storia, sapere chiudere un racconto, un rapporto, un discorso. Perché le fini sono tante e non ci danno pace. Bisogna avere la penna pronta per scrivere l’ultima frase e chiudere tutto in un cassetto. Bisogna essere pronti. E avere gusto. Le cose hanno una loro fine, se si appiccica loro addosso un’altra fine, una fine tarda, una fine prematura, una fine altra, le cose perdono equilibrio, cadono, non stanno più in piedi. È così bello sentire la fine che arriva, l’attimo in cui arriva, e godersela, in tutta la sua meraviglia.

martedì 31 maggio 2011

Blabla

Ti accartoccerò i polmoni e ci soffierò dentro come in un palloncino. Riscatterò i terreni occupati della tua fronte e soffierò del sapone sulle tue rughe d’angoscia. Spargerò del sale. ti disinfetterò il sangue. E ripulirò le tue urne nascoste, le tue mine disperse. le luciderò con un altoparlante e ricoprirò le tue coperte con del nastro isolante. Raccoglierò le puntine in una scatola di cartone, la brucerò con un proiettile nel cuore. E ripeterò le nostre preghiere incompiute, ripeterò tutte le nostre preghiere incompiute. le lascerò marcire nella mia bocca, le lascerò fiorire nella mia stanza. Risanerò le paludi delle tue orecchie da tutti le cantanti. Aprirò un conto corrente per le tue perdite di sangue.

lunedì 30 maggio 2011

Diapositive

Le mezzelune lasciate dalle tazze di caffè e i treni che ritornano all’alba. I nostri “oggi” di tre giorni, e tutte le volte che sono rimasto solo. Gli echi delle canzoni nelle camere della nostra vita. I fili lunghi dei miei pensieri e questo ghiaccio viscido, scuro. I miei giorni ciclici di decadenza e di sonno. Le mie presunte ore universitarie passate in stazione lontano dal caldo. Continui principi di commozione. Continui e inaspettati.

giovedì 26 maggio 2011

Un sogno

Stamattina ho fatto un sogno stranissimo.
Ho sognato che ero a Bra, di sera, e dovevo andare in qualche viuzza minore a parlare col chitarrista dei Massimo Volume, e che facevo una fatica bestiale a trovarla e poi la trovavo, e non ero più a Bra, ero in un altro posto che non avevo mai visto e dovevo trovare parcheggio, e non lo trovavo. Poi parcheggiavo, evidentemente, perché un secondo dopo ero a piedi, ma non mi ricordavo più dove avevo parcheggiato. E allora mi mettevo a cercare la macchina, non la trovavo, giravo in tutto quel vicolo ed era pieno di macchine simili alla mia, ma parcheggiate ovunque, anche in dei posti un po' strani, come per esempio sulla striscia che divide le due carreggiate, anche se lì, in quel vicolo, era un po' improbabile ci fossero due carreggiate, anche perché era tutto lastricato col porfido, era stretto, era anche un po' improbabile che ci passasse una macchina, a dirla tutta, in quel vicolo, ma lasciamo perdere, dicevo, era pieno di macchine simili alla mia, ma un pelo differenti.
E poi a un certo punto avevo perso anche le scarpe, e giravo in questo vicolo, che io nel sogno dicevo fosse Milano, ma non era Milano, ed era pieno di scarpe, per strada,
anche di calzolai, di scarpe vecchie, nuove, di scarpe grandi, da muratore, di ciabatte, di scarpe da donna, coi tacchi, senza tacchi, di scarpe da lavoro, e mi ricordo benissimo un paio di scarpe enormi, che, nel sogno, correndo, mi ricordo che mi ero chiesto di chi potessero essere, quelle scarpe lì.
Ma andavo così veloce, e così deciso, di qua e di là, per il vicolo a cercar le mie scarpe, che da sveglio mi è venuto da pensare che io le scarpe ce le avessi ancora ai piedi, ma non sono sicuro.

lunedì 23 maggio 2011

Sul portone di casa

"Home, home again..."

Scrivere è come pisciare. Ha gli stessi tempi, gli stessi dolori, gli stessi sollievi. Nient’altro da dire. Esce sempre dal di-dentro, non è mai il di-fuori. E punge, ed è un bisogno. Lo si deve fare. E se non lo si fa, fa male. Ci si può giocare, con le attese. E col piacere della pisciata.

Vorrei tanto che mi raccontassi la tua storia. E poi raccontarti la mia.

"...i like to be here when i can"

Perché non ti ho mai raccontato la mia storia?

È pieno di coincidenze sulla dissoluzione, in questi giorni.

Scalini

Arrivo in biblioteca con dieci minuti d’anticipo. È già aperta. Entro, mi siedo, tiro fuori i libri, un foglio e inizio a scrivere. Mi sento al sicuro.
Mi sono messo nell’angolo più nascosto che ci sia, sul tavolino sotto le rampa di scale che porta al magazzino di sopra. Il muro davanti a me è ricoperto di scritte colorate, disegni, insulti, dichiarazioni d’amore e di amicizia eterna. Alzo lo sguardo e mi rendo conto che anche gli scalini, da sotto, sono scarabocchiati.
Mancano quattro giorni agli esami e sono nella merda. Penso che devo andare a Torino a stampare gli statini. Forse questo pomeriggio, mi dico.
È un periodo questo in cui quasi tutto mi scoraggia o mi spaventa. Anche il freddo. Il freddo mi mette a disagio. Passo sempre negli stessi posti, più o meno alle stesse ore. Alle sette e mezza mio padre mi lascia in macchina dietro la stazione; entro nel bar dall’altra parte della strada a fare la seconda colazione della giornata e rimango lì dentro fino alle nove meno un quarto. Leggo. Pago, esco e vengo qui in biblioteca. Provo a studiare. Ci riesco al massimo per un’ora, poi mi sale l’ansia e non riesco più a fare nulla.
Sto studiando geografia. Alle dieci vado a prendere un caffè alla macchinetta che c’è all’entrata. Poi torno sopra a fingo di studiare fino alle undici e mezza. A volte non faccio nemmeno finta: prendo un libro e inizio a leggere.
Ultimamente è un periodo che ho delle frasi ricorrenti in testa. Come: “Sognai di voler dormire. “
Ho sonno. È da due giorni che ho nostalgia del mio letto, al bar. A volte mi viene da piangere. Voglio tornare a casa a dormire. Ma non posso. Devo studiare. Ma non riesco.
A mezzogiorno la biblioteca chiude, allora torno al solito bar per mangiare pranzo. 9 euro, un piatto, acqua, caffè e dolce. Rimango seduto a un tavolino fino alle due. Poi torno in biblioteca. A quel punto della giornata non ho giù più alcuna voglia di studiare. Resisto fino alle tre e mezza, poi chiamo un amico e gli chiedo di uscire. Di solito ci vediamo. Stiamo in giro fino a notte fonda.
Ho attacchi d’ansia per gli esami. Vanno e vengono. Si alternano a momenti di rassegnazione, a momenti di menefreghismo, a momenti in cui non so nemmeno io cosa succede. È un periodo in cui ho paure e desideri incontrollabili.
Sono le nove e venti e in bilioteca non c’è nessuno. Mi dico che sarebbe meglio studiare. Ci provo. Sale l’ansia.
La gente mi cammina sulla testa, non ci avevo mai pensato.

mercoledì 11 maggio 2011

Per aria

Sono appena caduto dalle scale. È stato un secondo: un piede è scivolato, il resto l’ha seguito. Mezza scala. Schiena, gomito, fianchi, culo. Gli occhi spalancati. La mano aggrappata al corrimano.
Il tonfo.
Mi rialzo e vado in cucina a farmi un caffè. Riaffrontare le scale ancora doloranti è la cosa più difficile, penso. Penso con quale mano tenere la tazza e con quale aggrapparmi al corrimano. Penso se dare il peso al gomito o lasciarlo riposare. Si muove male, a fatica. Poi sulle scale mi viene in mente che il corrimano non lo uso mai e faccio le scale a passoni da gigante disegnato, alzando i piedi oltre il normale.
E mi viene in mente il finale di Grandi Ustionati di Paolo Nori: "Ma la cosa più brutta, di cadere giù per le scale, non è quando prendi la botta che ti fa male, la cosa più brutta è il momento che te sei per aria, le gambe in avanti, ti rendi conto che la botta, è questione di poco, sta per arrivare."

domenica 3 aprile 2011

In viaggio (dalle sei a mezzogiorno)

I miei viaggi disimpegnati, i miei tempi morti. Le tratte per Milano, Padova, Bolzano. coi cieli scarichi, i paesaggi neri e gli scioperi delle città e dei ferrovieri. Le mie duecento insicurezze e i dubbi che squartano i finestrini. I libri da leggere, i libri già letti, le cuffiette rotte. gli arrivi a Milano, sani e salvi, in gloria, con la luce da sopra e da tutti gli angoli. le solitudini. le attese confinate e le ore stiracchiate. come quella volta che era morto tuo padre e il giorno dopo siamo andati lo stesso a vedere i Godspeed You! Black Emperor e ti ho letto Daniil Charms camminando per Milano. e tornando a casa eri asciutto e incredulo. I campi colorati con un gessetto azzurro su un sacco di tela stremato. le luci da presepe. E le fermate.

Il sole è un tuorlo d’uovo sigillato nel torbido di un barattolo d’alcool. all’alba. I paesaggi che ci si potrebbe fare un film. come quella volta in Irlanda, con i Radiohead, sul pullman. quando il centro di Dublino è diventato un video.

E non ne posso più dei centri commerciali, delle canzoni commerciali, delle canzoni di merda. del sangue che cola. A Torino c’è un sole come se sapesse che sono qui sono per svago. per passare il tempo prima di partire. La vita di Bob Dylan e i libri di Perec che ho lasciato alla Feltrinelli per non caricarmi troppo lo zaino. Le grandi aspettative. Le cuffiette nuove e la stessa musica sull’ipod ormai da un anno.

Le mie pagine dove non c’è mai nessuno.

giovedì 31 marzo 2011

Acqua

e prima mi sono reso conto di essere a Torino, e mi sono detto che era meglio non considerarmi sempre di passaggio. ti ricorderemo ogni tanto, quando ci diranno di farlo. Nel bagno di questo bar che non sembra un bagno ma l’anticamera di un balcone. a osservare i buchi circolari sul soffitto del cesso e a accelerare coi pedali dell’acqua sotto il lavandino. specchi sporchi per proteggere gli spacci. Ieri notte ho pensato che ultimamente sto bene perché sto comprando solo buona musica. In questo bar a mangiare pranzo completamente solo in tutto il locale, l’unico, che mette un silenzio e una tristezza incredibile. che devo ancora far passare tre ore e mezza e non so cosa fare non so dove andare non so a chi pensare. e fuori il cielo è un foglio grigio opaco che nasconde un tumore di sole di lava tiepida. E ieri mi stupivo che alle otto del mattino faceva già chiaro. come quella notte che dopo aver letto Tarantula di Bob Dylan sentivo la testa pulsare e le labbra formicolare e il corpo in tensione per l’ubriacatura di parole e di significati. che si annodano bene e male come i capelli sotto la pioggia.

mercoledì 30 marzo 2011

Avivistamenti

Ci son delle volte, quando sono in giro, che mi capita di vedere della gente famosa, per strada, cioè, non della gente famosa reale, ma dei sosia, se così vogliamo dire, uguali. Tipo una volta, una mattina presto, qualche mese fa, faceva freddo, stavo uscendo da Porta Susa, ho girato l’angolo, mi è passato accanto Miles Davis. Un’altra, ieri, stavo facendo quei due scalini che ci sono all’entrata di Porta Nuova, su quei due scalini che ci sono all’entrata di Palazzo Nuovo c’era Bukowski. Oppure oggi, sul treno delle 17 45 che da Porta Nuova porta a Bra, quando stavo per scendere, a Bra, che ero davanti alla porta a aspettare che il treno si fermasse e si potesse scendere, davanti a me c’era Johnatan Coe.

venerdì 18 marzo 2011

A plain picture

Le grammatiche greche, i libri, i libri distratti e i libri persi fra gli altri. micah p hinson son qui che t’ascolto, ho sonno e ormai ti so già, e ti conosco così bene che non sarebbe male, se facessi un altro disco. le tazze sparse sulla scrivania, i pacchi, i pacchetti e gli imballaggi di carta gialla, gli spaghetti giapponesi che si accavallavano su un naso che non c’è mai stato e poi la perfetta vibrazione delle bacchette, che andrebbero usate per suonare la batteria, non per stringere pesci. La verità è un'immagine semplice. E tutto questo non ha senso se lo si guarda da davanti, basta spostarsi verso destra, poi verso sinistra, poi sedersi e guardare a terra. Parole, parole, parole, ma che cosa mi ci vuole, mi ci vuole leonard cohen, tutto minuscolo, tutto di seguito, tutto d’un fiato, un fiato lunghissimo, tortuoso, monotono e tintinnante e soffocato, perché d’altronde bob dylan ha aperto una strada a tutti, ma non molti sono interessati, altri hanno già altre strade. e comunque il caffè d’orzo è buono, nonostante quello che la popolazione mondiale continua a tramandarsi negli anni, raymond carver scriveva in silenzio, questi brani sono stati scritti in silenzio, la disciplina dell’azione sta nel non violarli. e il the, i cucchiaini lunghi per le tazze alte e quel mio sogno di rimanere rinchiuso nella mia stanza per sempre ed essere autosufficiente e poi uscire, prendere la macchina, bagnarsi, rischiare di morire a ogni curva e non vedere le macchine non vedere la gente non vedere più niente perché i vetri son sporchi, da dentro e da fuori, ma soprattutto da dentro e quando torno sono puliti perché gli è piovuto addosso per delle ore e la macchina ha un altro colore è nera ma è blu, e poi torniamo tutti a casa, dopo delle ore dove non pensavamo più di avere un corpo e le frenate mi trattavano la gola come una lama tratta l’acqua e ormai sento che ho perso tensione ho perso precisione sbando e rallento scalo e mi fermo.

sabato 19 febbraio 2011

Nemesi

"Nemesi" vuol dire vendetta.
è il titolo di un libro di Philip Roth,
l'ho visto stamattina, in un negozio,
camminando per le vie del centro.

Il freddo mi metteva a disagio.
Cercavo un posto dove dormire.
Avevo nostalgia di casa.

sabato 5 febbraio 2011

Quando suonano

Oggi ho chiamato Ema, non rispondeva. Il telefono squillava, non rispondeva.

“Beh” - ho pensato – “magari dorme. “
Passa un’ora, chiamo Ema, non risponde.
“Dovevamo vederci” - penso - “dov’è finito?”
Allora decido prendo vado sotto casa sua, suono, risponde al campanello, mi apre, salgo. Gli chiedo:
“Com’è che non rispondevi prima?”
“Ho paura dei telefoni” mi dice lui.
“Cosa vuol dire che hai paura dei telefoni?”
“Che quando suonano mi prende un’ansia che mi spavento e non riesco a rispondere.”
“E da quando tutto ciò?”
“Da questo pomeriggio.”


Poi usciamo.

Inizio di una storia

Voglio raccontarvi la storia di un pesce, anzi no, di un giornale, anzi no, di mio figlio, anche se io un figlio non ce l’ho, quindi, dato un che un figlio non ce l’ho, si fa prima a parlar di me.
Che se ce l’avessi avuto un figlio, facile, avrei potuto parlar di lui, ma non ce l’ho, si fa a prima a parlar di me, per me. Che poi, a pensarci, io so già poco di me, cosa avrei potuto raccontare di mio figlio?
“Mio figlio, è nato, probabilmente morirà.” avrei potuto scrivere. Alla fine è poi questo. Il resto è soggettivo. Allora si fa prima a raccontar di me.

Anche perché poi, di un figlio avrei dovuto dire di più, è mica vera la cosa di prima, che bastava dire quello, no, bisognava anche dire certe cose che ora la società di oggi capisce che quello lì, quello nato e che probabilmente morirà, è veramente il figlio che non ho.
E allora avrei potuto scrivere: “Mio figlio, è nato, probabilmente morirà. Gli piace il colore blu, e suonare il piffero.” Solo che poi, adesso che ci penso, se poi mio figlio si comprava un piffero blu, io ero mica tanto contento.
Quindi meglio parlar di me, che si fa anche prima.

Io, eh, bella questa, chi sono io? Bella pure questa. Diciamo che io sono un uomo che è nato, morirà, e se avessi avuto un figlio, sarei stato pure il padre di mio figlio. Invece non ce l’ho non son padre di nessuno. Sono solo uno che, hai voglia, parlar di me, è una fatica, mica piccola poi, affatto, c’è da starci secchi, parlar di me, definire chi sono eccettera eccetera.
Forse era meglio se vi raccontavo la storia del pesce.

Ma anche lì, del pesce, io, che ne avrei saputo? E se poi un pesce avesse letto queste cose che scrivo? Come si sarebbe sentito? Per me mica bene, per me. Magari si sarebbe pure arrabbiato, e avrebbe pensato che gli uomini di oggi parlano di cose che non conoscono, come delle storie dei pesci o dei figli che non hanno. Ma menomale che io la storia del pesce non ve la voglio raccontare, vi voglio raccontare di me.
Diciamo che, me, cioè io, me, eh, è un po’ difficile, sapete?

domenica 30 gennaio 2011

Scarabocchi

Questo pomeriggio, verso le due, ho notato che eran due giorni che non scrivevo a mano. E questa cosa qui , il non scrivere più a mano da ben due giorni, mi ha fatto un effetto stranissimo, come se per due giorni mi fossi dimenticato di una cosa importantissima, di una cosa da fare assolutamente, e allora ho cercato una penna sulla scrivania, non ce n’erano, di penne. Son sceso in salotto, ho preso una Staedtler blu, son tornato sopra ho scarabocchiato una pagina intera. Poi una pagina intera di firme. Poi un’altra di scarabocchi. E, quando ho girato quest’ultimo foglio per scarabocchiarlo anche dall’altro lato, ho notato che avevo fatto quattro disegni, se così li si può chiamare, astratti, se così possiamo dire, che, in fila, mi ricordavano uno un castello, uno un barattolo, uno una maglietta, uno una tazza. Allora m’è venuto in mente che non sarebbe male intitolare un disco Castlejarshirtcup, un po’ sulla scia di Swordfishtrombones di Tom Waits, e, come copertina, mettere quel disegno lì. È una cosa un po’ strana, e anche un po’ malata, il fatto che mi vengano in mente i titoli di dischi che devo ancora fare (se mai li farò) e ora che ci penso questa non è nemmeno la prima volta che mi succede. Mi ricordo che una volta stavo leggendo un libro di poesie di Leonard Cohen, ho letto un verso che diceva: “Under the cordless travelling moon” e ho pensato che sarebbe stato un titolo bellissimo per un disco d’esordio. Avevo pure già in mente la copertina. Ora non mi piace più tanto.