domenica 13 luglio 2014

La macchina

La tristezza è una macchina pesante, abitudinaria, pretenziosa, e, una volta installatasi nel corpo di chi assoggetta, col suo peso, lo tira, costantemente – naturalmente - verso il basso, giù. Giù se ne vanno le labbra, giù le palpebre e gli sguardi, giù le braccia, giù, per i pesi maggiori e i casi più disperati, anche le schiene.
È una macchina viziata, infantile (checché ne dicano i luoghi comuni riguardo una certa spensieratezza, a loro dire propria, dell’infanzia) e per questo lunatica, taciturna, dispotica. Ha sempre – sempre – bisogno di contrappesi per non attivarsi, sempre presenti e costanti, sennò… ecco il patatrac, il disastro, il malanno emozionale, la spossatezza, lo scoramento.
Tale macchinario, difficilmente collocabile all’interno del corpo umano, ma solitamente ritrovato nella cassa toracica, nel petto, viene percepito, da chi se lo ritrova “dentro”, come un aggeggio ingombrante, invecchiato male e in fondo superfluo, come una vecchia ed enorme stampante di qualche decennio prima che, se solo si volesse, si potrebbe anche buttare via.

Nonostante sia ormai un rottame, la macchina funziona, eccome se funziona, funziona sempre, e a volte non la si riesce più a spegnere. Al massimo la si può tenere buona, illudersi di averla messa da parte, di averla buttata – scassata- con un lancio euforico in qualche anfratto della cassa toracica; ma basta un’inezia, una pulce: una piccola mancanza, un minuto di troppo di attesa, una parola azzardata, un silenzio mortificante, ed ecco che la macchina ricomincia a girare, con quel suo ronzio – più un lamento che un rumore – straziato e imperturbabile.
È una macchina inutile, fuori tempo, pensano quelli che se la portano appresso, soprattutto dopo una certa età, ma la macchina, nonostante tutte le Ragioni, continua a restare.
Il peso, a volte, porta quelli che la sopportano a ribellarsi, in un atto di ira disperata e gioiosa, alla macchina, a voler farla finita, con questa tristezza; perché il peso, oltre a far male, mortifica e umilia.

Ma è solo uno slancio momentaneo. Non può,  crede chi sopporta la macchina “dentro”, liberarsene: sarebbe come gettar via se stessi. Alcuni, pur di non sopportare più il peso, lo fanno: si buttano loro e la macchina, con gesti a volte plateali, a volte silenziosi e sofferti, ma il rumore che fanno – tutti – è sempre lo stesso: un gran frastuono vuoto e sonoro di un attimo, e poi il nulla.

venerdì 9 maggio 2014

Il famoso e celebrato scrittore di mezza età scrive contro la morte

La malattia era sopraggiunta cinque mesi prima, senza troppi convenevoli, quando aveva appena ingranato la marcia giusta nella scrittura del suo secondo romanzo. Aveva iniziato a lavorarci due anni prima, dopo un lungo periodo in cui anche il minimo tentativo di iniziare qualcosa di nuovo si era rivoltato contro di lui, testualmente, “con la stessa rapidità di una biscia appena infilzata”.

Dieci anni prima era uscito il suo primo vero romanzo, o almeno quello che lui sentiva come il suo primo vero romanzo[1], ed era stato un lavoro immenso, che aveva totalizzato la sua vita per i precedenti quattro anni.  Senza esagerazioni: durante quel periodo non aveva fatto altro che scrivere o pensare al libro, e quando non stava scrivendo si stava informando per continuare a scrivere, o stava rileggendo ciò che aveva scritto, o controllando i suoi appunti e i suoi schemi, e così via in un turbine di ossessione che, ne era certo, lo avrebbe portato molto vicino al totale annullamento di sé e, se non si fosse risolto in un qualcosa di concreto, all’esaurimento nervoso. La sua concentrazione e la sua dedizione al libro erano state tutto ciò di meglio che all’epoca potesse fare. Era indubbiamente la cosa migliore che avesse fatto in vita sua.

Lo aveva consegnato all’editore, corrette per l’ultima volta le revisioni e le note, esausto.
Il pomeriggio dopo aver dato la conferma alla stampa, quando ormai il suo lavoro era definitivamente concluso, si era sentito vuoto, allo stesso tempo libero e, per questo, ancora più vuoto. Gli ci erano voluti parecchi mesi per riequilibrarsi dalla sottrazione del romanzo dalle sue mani, per realizzare ed accettare che il libro fosse un prodotto ormai finito.

Quando il romanzo era stato pubblicato, l’accoglienza era stata quella del capolavoro. I critici letterari più crudeli lo avevano elogiato, le vendite erano alle stelle e nel giro di pochi mesi si era già alla sesta ristampa. Considerando la lunghezza del libro, 1200 pagine, e la sua complessità, la reazione era stata fenomenale.

Ora, dieci anni dopo, quando il soggetto del suo prossimo romanzo si era ormai delineato, i personaggi avevano iniziato a prendere vita e aveva trovato la voce, il passo, del romanzo, era arrivata la malattia.
Terminale. Un tumore. Nessuna speranza di salvezza.

Aveva sperato fino all’ultimo in una cura, confidando nella possibilità di guarire e ricominciare il suo lavoro, ma gli mancavano all’incirca due o tre mesi di vita, a quanto dicevano i medici, e poi sarebbe morto. Si era ritrovato, allora, a scrivere contro la morte, con la consapevolezza che l’opera da lui generata fosse troppo grande per essere scritta, rivista e terminata in soli due mesi.

L’unica alternativa possibile, dunque, era continuare a scrivere: strappare a ogni giorno una pagina in più, una pagina che fosse finita, revisionata, buona, ben calibrata, pronta. Non voleva abbandonare il suo lavoro, dato che Il Lavoro, come lo chiamava fra sé e sé, era stato, fra il periodo di crisi e il periodo di preparazione e poi, finalmente, quello di produttività, il centro della sua attenzione e della sua preoccupazione per i precedenti dieci anni. Voleva che almeno qualcosa venisse pubblicato.
La decisione l’aveva presa appena aveva avuto la conferma inderogabile della sua fine: avrebbe scritto, volontariamente, un romanzo postumo.

Gli sembrava l’unica soluzione possibile. Aveva provato a riassumere e sfoltire il romanzo, ma riscrivere ciò che aveva già scritto gli avrebbe portato via, lavorando come un matto almeno un mese di tempo, e ciò che già aveva scritto aveva il respiro, la veduta, di un qualcosa di ampio e lunghissimo. Probabilmente sarebbe stato anche questa volta un romanzo di un migliaio di pagine. L’unica soluzione era continuare a lavorare, fino alla fine, per quanto possibile.

Poco prima di morire, cioè nell’attimo in cui scrivere sarebbe stato impossibile, avrebbe chiuso e salvato il documento sul suo computer, e avrebbe espresso a sua moglie, come sua ultima volontà, il desiderio di far pubblicare quel documento come romanzo postumo. Solo ed esclusivamente quel documento.
Non voleva un tomo di 500 pagine di abbozzi e prime stesure, sarebbe stato vergognoso; voleva invece che venissero pubblicate solo quelle pagine che, se fosse rimasto in vita, sarebbero state quelle buone, quelle che, probabilmente, non avrebbe più modificato o ritoccato troppo.
La sua stima era all’incirca di 250 pagine.

A quel punto della vicenda, cioè dove aveva deciso di applicare la sua ultima e inevitabile cesura, solo uno dei tre nodi principali del romanzo sarebbe stato pienamente sviluppato, ma il fatto che gli altri due sarebbero stati appena enunciati lo consolava: sarebbero parsi come dettagli o abbellimenti del primo, evitando di sbilanciare troppo la narrazione senza concluderla.

Il gesto più difficile era stato indubbiamente quello: decidere dove finire. L’atto della cesura avrebbe conferito al romanzo un senso superiore al suo senso oggettivo. Decidere dove porre la parola fine[2] era la sua ultima possibilità di agire attivamente contro la morte. Consapevole della sua sconfitta, non si sarebbe spinto oltre, facendosi trovare dalla morte vergognosamente impreparato, ma sarebbe rimasto saldo e immobile sul posto, aspettando e lavorando. E proprio quel gesto pienamente volontario di cesura, esito di una disperazione lucida e senza sgomento, sarebbe stato il motivo primario per pubblicare il libro.

Era sempre stato ossessionato dagli inizi e dalle fini, sia in letteratura che nella vita reale, e lo sforzo maggiore, ma in qualche modo anche il piacere più intrigante, era stato quello di accettare la sua fine, di sentirla delimitare il suo campo d’azione e di passare da animale braccato, quale ormai era nella vita reale, a “dio demiurgo”[3] nel suo romanzo, e imporre al romanzo, come era stata imposta a lui, una fine.

La fine, anche nel romanzo, sarebbe arrivata inaspettata, come un imprevisto: un blackout, che avrebbe lasciato al buio un’intera sala da pranzo dove due dei protagonisti si erano ritrovati a cenare.

Mentre continuava a scrivere però, pur avendo  già pre-determinato l’ultima scena del romanzo, non riusciva a smettere di pensare ossessivamente a come sarebbe stata l’ultima pagina, l’ultima riga. Ogni tentativo, sforzo o appunto a riguardo gli era sembrato artificioso o troppo premeditato.

Così, a poche settimane dalla sua fine, un mattino in cui il dolore gli impediva di concentrarsi sulla scrittura, si decise per la scelta più difficile, ma, in fin dei conti, la più naturale.
L’ultima riga, l’ultima pagina del romanzo, le avrebbe lasciate per l’ultimo giorno di lavoro e per la persona che sarebbe stato quel giorno. Consapevole della sua situazione ormai instabile, si rese conto che, per evitare di perdere il controllo sul suo lavoro, la sua ultima vera decisione sarebbe stata quella di stabilire, con una fiducia quasi animalesca nel suo istinto e nel suo tempismo, quando smettere di lavorare.



[1] La sua prima pubblicazione, a voler essere oggettivi, era un romanzo, ma lo scrittore riteneva quel libro “talmente uno schifo” da sentirsi perseguitato perfino dall’idea di aver considerato di pubblicarlo.
[2] Che, nella sua mente, coincideva con il  porre la parola fine alla sua stessa vita, in quanto l’unico gesto sensato e degno di nota, nella sua vita, era stato il suo scrivere.
[3] Si rendeva della leggera assurdità della sua affermazione e in alcuni momenti l’aveva ritenuta parecchio infantile e disperata.

mercoledì 22 gennaio 2014

L'inizio dello scotch

Ogni volta la stessa situazione. Mancano pochi giorni alla consegna dell’articolo e non ho ancora scritto una riga, non so da dove partire e non so nemmeno su che cosa scriverlo.
 Il problema, quasi sempre, è che non trovo l’inizio del discorso. Come con lo scotch, che da bambino ci ho perso chissà quanto tempo, a cercare l’inizio dello scotch. Mi metto lì, seduto, le mani sulla tastiera, cerco un inizio, provo a scrivere, ma non concludo nulla. In due giorni che ho provato a scrivere ho aperto  e lasciato bianchi una decina di documenti word, ho pensato e ripensato, mi sono sforzato di trovare uno spunto in qualche libro, ma niente. 
Allora mi sono detto che è tutta questione di esercizio, che bisogna sciogliersi, riscaldarsi; come quando si fa ginnastica. E così ho fatto, in questi due giorni: ho iniziato a scrivere senza nessuna direzione specifica, soltanto come esercizio, per prenderci la mano. E il risultato è stato che ho scritto, anche con facilità, due pagine di niente, in cui, per qualche migliaio di battute, parlo di niente.
Poi mi metto lì, mi dico Adesso comincio. Niente.
Insomma, procrastino.

 È un problema parecchio diffuso, credo, quello del procrastinare, e, almeno per me, la procrastinazione è  uno dei miei difetti con il quale ho più spesso a che fare, nella mia vita. Ad esempio mi ricordo il periodo in cui dovevo scrivere la tesina per l’esame di maturità, qualche anno fa, che era una cosa importante, che richiedeva un certo impegno, e mi ricordo, dicevo, che avevo aspettato fino all’ultimo per iniziare a scrivere, e avevo costantemente rimandato facendo dell’altro, invece di mettermi lì e provare a tirar fuori qualcosa di concreto, che era poi l’unica cosa che avevo da fare. L’ho poi scritta in tre giorni, la mia tesina, gli ultimi tre giorni a disposizione, con la relativa ansia e oppressione che un caso del genere poteva darmi. Anche il mio primo esame all’università, 1200 pagine da studiare, 5 libri da leggere, l’ho preparato in due settimane.
La cosa particolare, forse, è che all’esame ho preso 30 e la tesina è uscita bene; cioè mi son reso conto, negli anni, che col fiato sul collo, anche se è una sensazione che detesto, lavoro bene comunque; anzi, forse, per il modo sbagliato in cui sono fatto, è l’unico modo in cui riesco a lavorare. E anche nei libri, per esempio, mi piace sentire quella sensazione lì, di una cosa tirata via per il rotto della cuffia, come si dice, non so se mi spiego, di un fiato sul collo che spinge in avanti la narrazione, di una certa pressione, in qualche modo.

C’è un video su Youtube che mi piace moltissimo, si intitola Procrastination, e ogni tanto mi vien da pensare che se si potesse mettere un video sulla carta d’identità, io forse metterei quello. È un video animato, disegnato, dove c’è una voce fuori campo che dice, in inglese, “Procrastination is” e poi semplicemente una lista di azioni tipiche del procrastinare, e alcune di queste azioni, tradotte, suonano così:
 “Procrastinare è evitare di fare qualcosa. è non essere in grado di iniziare. È leggere un libro. È temperare la matita. È farsi una tazza di the. È trovare il modo più difficile di fare qualcosa; è saltare da un’idea, a un’altra, a un’altra. È guardare alla finestra, è guardare i vicini, è guardare la televisione, è non essere capaci di smettere di guardare la televisione. È farsi una tazza di the. È fumare una sigaretta.  È ordinare la scrivania. È giocare ai giochi del computer. è fare un sonnellino. È iniziare otto cose contemporaneamente e non finirne una. È farsi una tazza di the. È scrivere delle liste. È cercare di evitare l’inevitabile. Procrastinare è aspettare il postino; è non essere capaci di decidere come fare una cosa; è complicarsi la vita da soli; è non sapere quando finire qualcosa; è non sapere come, finire, qualcosa.”
Ecco, questi, che, naturalmente, sono solo degli esempi, credo rendano bene l’idea dell’impegno nel non impegnarsi, se così lo si può chiamare, di cui ho parlato prima.

E, pensando a quel video, mi è venuto in mente che procrastinare significa, in fin dei conti, scegliere la via più facile, come ad esempio scrivere due pagine sul fatto di non saper che argomento scegliere per un articolo invece di scriverlo, come ho fatto io, oppure rimandare in continuazione una scadenza; significa, insomma, evitare di affrontare uno sforzo.

Scrivere, quando per scrivere si intende almeno provare a scrivere qualcosa che abbia un valore, una forza, e, nel caso di un articolo, un minimo di comunicatività, io credo sia un atto di solitudine, di concentrazione, di preparazione e, di conseguenza, un’azione che richieda, almeno per quanto mi riguarda, un certo sforzo.

A pensarci, infatti, quando arriva il momento di scrivere un articolo, dopo aver ovviamente rimandato abbastanza, la difficoltà iniziale che provo,  cioè quella sensazione di non saper da che parte iniziare, è semplicemente la reazione della mia testa, se così si può dire, allo sforzo di mettere assieme qualcosa che stia in piedi, di fare qualcosa di buono, insomma, che abbia un senso e una dignità. E per fare questo, ovviamente, devo smettere di procrastinare.

Il punto è che, una volta iniziato, e anche una volta finito, succede l’esatto opposto di quello che succedeva all’inizio: dal non riuscire a fare, passo al voler fare meglio, al voler fare di più. è come se, una volta uscito da quel meccanismo di continuo rimando, non fossi mai pienamente soddisfatto di quello che faccio.

Ieri notte mi è capitato di vedere il video di un’intervista dello scrittore americano David Foster Wallace, e a un certo punto Foster Wallace dice: “Il perfezionismo è molto pericoloso, perché se la tua fedeltà al perfezionismo è troppo alta, non fai mai niente. Perché fare qualcosa risulta in qualche modo tragico, perché comporta sacrificare quanto stupendo e perfetto quel qualcosa è nella tua testa, per quello che realmente è.”
E ho pensato che lo scrivere un qualcosa che non sia solo per me, ma anche per gli altri, come un articolo, mi sembra sia una mediazione fra questi due impulsi, cioè quello istintivo della difficoltà di iniziare a fare, e quello dell’aspirazione, ovviamente mai perseguita, al perfezionismo.

E mi sembra che il senso generale, di questo scrivere, almeno per quanto mi riguarda, stia appunto in questo sforzo; e che il risultato, di questo sforzo, di questa trazione, sia appunto un movimento, uno smottamento, semplicemente: un cominciare.

mercoledì 27 novembre 2013

Lasciare dei segni

Quando cerco l’ispirazione, salgo su un treno. Credo sia una questione di carattere, di conformazione mentale.
Quello che ho sempre apprezzato del treno come strumento magico è la sua capacità di renderti spettatore stabile e in movimento di uno scorrere costante e continuo, di gettarti le cose addosso; e questo movimento “imposto” del treno, lo scorrimento del paesaggio, mi sembra che smuova una situazione di stallo come l’assenza di ispirazione, che smuova le idee e ne faccia nascere di nuove. In qualche modo, non ho ancora capito quale, mi sembra influenzi i pensieri.
Il treno è un fenomeno cinetico che diventa cinematografico. Anche se il tragitto rimanesse sempre lo stesso, i fattori che renderebbero ogni viaggio particolare e, quindi, possibilmente ispiratore sono moltissimi : la luce, il momento della giornata, la stagione, l’umore, il posto in cui si è seduti, la posizione in cui si è messi, il modo in cui si è vestiti, la compagnia o la solitudine, i vicini, il libro o la musica che si ha con sé. Si ha così poco da fare, su un treno, che ogni cosa assume un’importanza, e mi viene da dire, una luce, differente.
  
Il treno è anche una raccolta di voci, di rumori, di storie; basta sedersi e ascoltare. C’è una certa sacralità, una certa ritualità nell’ascoltare il vociare ed i discorsi di un vagone intero, nell’osservare i piccoli miracoli che si creano sotto i nostri occhi al mattino presto, quando la luce sembra essere ovunque e provenire da ogni cosa. E prendere un treno, in determinati momenti, per me è fondamentale, sacro.

Mi è capitato di pensarci spesso, al sacro, in questo periodo, anche grazie al fatto che, a fine settembre, c’è stato a Torino un festival che si chiama “Torino Spiritualità” che ogni anno organizza dei concerti e delle letture in qualche modo riguardanti il sacro,a volte anche in modi anche parecchio inusuali, che mi piacciono sempre moltissimo; festival che, a dirla tutta, dal nome, io la prima volta che ne avevo sentito parlare, qualche anno fa, avevo pensato a una manifestazione noiosissima e anche un po’ snob di preti, cerimonie, religioni, eccettera; invece poi, no, mi ero proprio sbagliato, e mi sembra che quel festival lì, in un certo modo, mi abbia dato una sfumatura di luce differente, sul sacro, durante gli anni.

E pensando, sul treno, mi son reso conto che, per me, il sacro, forse di nuovo per la mia conformazione mentale, non ha nulla di religioso. Credo abbia più a che fare con la meraviglia per il quotidiano, con i dettagli, con degli ambienti; è un sacro quasi atmosferico. E questa attrazione verso i particolari e verso la meraviglia credo sia la sensibilità più importante che mi abbiano trasmesso la letteratura e i libri in generale. Come certi racconti brevissimi di Carver, per esempio, che se fossero “incolonnati” sarebbero delle poesie perfette, per come vedo io la poesia.

E ieri, proprio mentre cercavo l’ispirazione per scrivere, mi sono ricordato oggi sul treno, ho riaperto per caso Diario Notturno, di Flaiano, e ci ho trovato dentro una frase, che fa così: “La troppa familiarità con le cose sacre allontana da Dio. I sagrestani non entrano in Paradiso.” e poi, più avanti, un’altra: “Cogliere l'impossibile nel gesto più solito, meravigliarsi sempre. Succede che la vita è piena di spettacoli non conformi alle nostre abitudini visive, spettacoli e forme che dovrebbero turbarci per la sconnessione col mondo circostante o per le allegorie che così hanno voluto disporli. Ma perdiamo forse tempo a notarli e a meravigliarcene? Se così fosse, ad ogni momento ci chiederemmo un perché, e forse niente e nessuno saprebbe risponderci.”  e ho pensato che anche questo trovare degli echi dei propri pensieri nei libri, per me è una cosa meravigliosa e, in qualche modo, sacra. 

Poi sono sceso dal treno, erano le otto di mattina, ed entrando in un bar per fare colazione, mentre pensavo ancora al sacro e ai libri, mi sono reso conto improvvisamente, forse proprio per i ragionamenti che stavo facendo, di essere entrato di nuovo in un rituale quotidiano nella mia vita: quello del the.
Mi rendo conto che, forse, a spiegarla, questa cosa del rituale del the potrebbe essere strana, però, secondo me, rappresenta bene la mia idea del sacro, credo.
Non è solamente una questione di preferenze, di gusti, non è solo la bevanda in sé; è una questione di ritualità, dell’importanza del rituale del the nella sua interezza, in tutto il suo procedimento, dalla scelta della tazza all’infusione, fino al the fatto e finito. E’ più un modo di affrontare le cose, farsi una tazza di the; un ritmo lento, meditativo; un momento di conforto, una sicurezza, una costante inderogabile. E mi sono reso conto, ad esempio, che quando sono a casa e mi sto facendo un the, i tre minuti che ci mette il microonde a scaldare l’acqua, mi sembrano densissimi e pieni di pensieri; e sono convinto mi sembri così perché durante quei tre minuti sono così immerso nella ritualità del the da essere isolato da tutto il resto e da crearmi un silenzio, attorno, e dentro, se così si può dire, nel quale, se ci deve essere una voce, è solo e soltanto la mia.

Allora, tornando a casa, sul tardo pomeriggio, di nuovo sul treno, dato che la mia testa era immersa in tutti questi ragionamenti sul sacro e sul rituale, mi è venuto da scrivere una lista, che a me le liste, come forma letteraria, piacciono moltissimo e mi sembrano anche un po’ sottovalutate, e ho scritto una Lista del Sacro, che è poi questa:

Sacro è ciò che è fuori dal tempo. Sacro è lasciare dei segni.
Sacri sono certi pomeriggi d’agosto, con il sole che entra comunque, anche dalle serrande abbassate. Sacro è l’attimo Prima e l’attimo Dopo. Sacre sono tutte le notti passate a ParlarSi in macchina e le mattine prestissimo. Sacro è l’attimo in cui inizia un concerto e l’attimo in cui finisce un libro. Sacra è una città deserta di mattino presto. Sacra è una casa appena affittata, ancora da arredare, con le pareti bianche e spoglie, invasa di luce. Sacri sono certi dischi che ti salvano la vita. Sacro è girare in posti sconosciuti senza sapere e senza considerare nemmeno dove si è. Sacre sono certe minuscole commozioni, improvvise e inaspettate, che sono come dei crolli di verità. Sacre sono certe solitudini.
Sacro è il ricordo. Sacra è l’Assenza. Preghiera è il ritorno all’Assenza.

Sacra è la Fine.

giovedì 26 settembre 2013

I risvegli e le impalcature

Mi succede, ogni tanto, di rendermi conto improvvisamente di avere un corpo,  una sensibilità; fondamentalmente, di essere vivo. E in questi momenti è come se il mio livello di percezione del mondo e di me stesso si alzasse vertiginosamente, senza preavviso. Ogni volta che mi succede questa cosa mi viene su una felicità che non saprei descrivere e non saprei nemmeno se chiamare felicità; però poi, in genere, subito dopo questa cosa piacevole e positiva che mi sale su, ne viene su un’altra, negativa, per niente piacevole, che si potrebbe tradurre col pensiero che, appunto, se in certi momenti mi rendo conto di avere un corpo, di essere vivo, di pensare, di respirare, eccettera, il resto del tempo no, che è un po’ come se mi dimenticassi.

Ad esempio, una volta, l’anno scorso, ero in macchina con un mio amico, stavo guidando, e sono arrivato a un incrocio in cui dovevo dare la precedenza a destra. Mi ero fermato, avevo guardato a destra, e nel mentre che guardavo a destra non mi ero reso che dritto davanti a me, dall’altra parte dell’incrocio, era arrivata una macchina alla quale avrei dovuto dare la precedenza. Invece io non so perché la precedenza non gliel’avevo data. La macchina non si era mossa di un millimetro, non aveva fatto niente. E quando il mio amico mi aveva  fatto notare che non avevo dato la precedenza, mi ero reso conto, non so per quale motivo, di stare ascoltando Yankee Foxtrot Hotel, degli Wilco, che per me è un disco bellissimo, e alla mancata precedenza invece non avevo dato il minimo peso. E da quella volta lì, per me quell’incrocio è diventato l’incrocio degli Wilco, perché in quel momento mi ero reso conto di essere vivo, di avere delle mani, di avere una faccia, degli occhi, una testa che pensava e sentiva, un respiro;  e ora, tutte le volte che ci passo, quello per me è sempre l’incrocio degli Wilco.

Devo dire, però, che queste prese di coscienza non è che mi capitino molto spesso, e l’ultima volta è stato qualche giorno fa, non per qualcosa che mi è successo, ma per un pensiero che mi è venuto. E la cosa che mi ha stupito, e che poi mi ha fatto fare quel salto di percezione di me stesso e della realtà di cui parlavo prima, è stata che quel pensiero l’avessi pensato io.

C’è un saggio degli anni cinquanta di uno studioso russo che si chiama Bachtin, che si intitola La parola nel romanzo, dove Bachtin dice che noi, le cose che diciamo, il cinquanta per cento non sono cose che diciamo, sono cose che ripetiamo. E quando avevo letto questa cosa in un libro di uno scrittore che si chiama Paolo Nori  e avevo letto che, secondo lui, a oggi, quella percentuale delle cose che noi ripetiamo è salita al novantotto per cento, avevo avuto anche lì una specie di illuminazione, una presa di coscienza, che poi è stata la stessa sensazione che ho avuto qualche giorno fa, quando mi è venuto questo pensiero mio, pensato da me: pensiero che suona bene o male così, cioè che, secondo me, le famiglie sono dei romanzi.

E le fondamenta  di questo pensiero, cioè che le famiglie sono dei romanzi, nella mia testa le ha gettate un signore che si chiama Alejandro Jodorowsky, che di mestiere  fa lo scrittore, il regista e tante altre cose,  quando in una conferenza ha detto che, secondo lui, nella vita tutto è racconto. E, da quanto ho capito, quando dice così, Jodorowsky intende dire che ogni aspetto della nostra vita è sottoposto e informato dalla parola, dalla mediazione,  e quindi, di conseguenza, dal racconto. La cultura è racconto, la morale è racconto, le idee, anche, sono racconti, dice Jodorowsky.

E allora mi è venuto da pensare che anche le famiglie siano racconto, romanzi, nel senso che forse c’è sempre qualcosa di trasfigurato, di non oggettivo, nelle famiglie. Ci sono caratteri, nevrosi, silenzi, ricordi, traumi, gioie, alleanze, polarità, e c’è sempre un’evoluzione, nelle famiglie, che può essere più o meno percepibile ma c’è sempre, e ci sono degli spostamenti, degli allontanamenti, degli allineamenti; proprio come nei romanzi. E tutto questo, per l’importanza che ha, passa attraverso la parola, e il suono della parola, e diventa romanzo. E pensavo ancora che, per questo motivo, al di là di ogni giudizio, le famiglie trovino la loro ragione di esistere proprio in qualità di romanzi, fra le altre cose. Che non è che debbano essere delle macchine perfette,  con dei meccanismi perfetti e degli esiti perfetti, anzi, le famiglie sono poi sempre in parte sbagliate, mi sembra, e hanno delle regole e dei meccanismi universali che allo stesso tempo sono  anche particolari per ogni famiglia; che sono poi quei meccanismi che influenzano delle vite intere, e delle personalità, e delle reazioni.

C’è quell’incipit famosissimo, di Anna Karenina, di Tolstoj, che dice: “Tutte le famiglie felici si somigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.”, che riassume benissimo quello che ho scritto fin’ora e, a proposito di quell’incipit lì, son sempre stato convinto che quel “tutte” e quel “ogni” non fossero stati messi lì per caso. È come se Tolstoj, usando due parole come “tutte” e “ogni”, due parole simili ma dal significato parecchio differente, faccia già capire al lettore quello che vuole dire in quella frase e in tutto il romanzo, credo, cioè che ogni famiglia infelice è infelice nel modo proprio di quella famiglia, cioè nel modo in cui quell’infelicità viene vissuta e quindi raccontata, mentre le famiglie felici, sono felici, cosa vuoi dire di una famiglia felice?

Ma, più che tutto, a pensarci, mi è venuto in mente che ogni famiglia ha il proprio modo di raccontarsi attraverso le proprie storie, e quindi, ancor di più, ha un suo vocabolario, un suo lessico. Che è poi il concetto che illumina in un modo  chiarissimo Lessico Famigliare, di Natalia Ginzburg,  un libro che fa capire a chiunque che il lessico di una famiglia è l’impalcatura della storia stessa di quella famiglia; come se ogni parola o ogni frase tipica di una famiglia riassuma in sé storie intere, periodi andati, epoche, persone; come se quel lessico fosse la cassetta degli attrezzi con la quale una famiglia smonta e rimonta la realtà che la circonda e che quella famiglia stessa crea. Che anche lì, una volta che uno l’ha letto, Lessico Famigliare, come fa a rimanere indifferente?

Ed è proprio questo, forse, il punto di questi momenti di autocoscienza: sono dei risvegli. È come se la realtà in cui sono immerso ogni giorno, nel modo in cui la vivo per la maggior parte del tempo, purtroppo, sia un’anestesia al mio senso della meraviglia; e invece quando ho un’idea mia, quando mi rendo conto di essere vivo,  quelli sono i momenti in cui il mio senso della meraviglia si risveglia, e lo fa da sé, senza che io lo decida. E allora, pensavo, se la meraviglia è come un muscolo, e la realtà è l’oggetto su cui deve agire, per tenerlo attivo bisogna soltanto allenarsi. E continuare a farlo.


venerdì 13 settembre 2013

Iniziare

Bisogna epurarsi da ogni stile estraneo. Sfoltire. Lasciar cadere il masso giù dalla rupe e raccoglierne il rimanente, a valle. Il nucleo: ciò che vale. Il resto: una zavorra.  

La vita è un lungo respiro. Bisogna trovare il passo del proprio e imparare a trascriverlo.
Scrittura come prolungamento del battito cardiaco.

Bisogna iniziare a provare. 

martedì 25 giugno 2013

Failure

" - if i’d begun thinking in terms of failure, what happens is that I get really depressed, and the game is over, because I’ve already decided -"

David Foster Wallace (1962 - 2008), Le Conversazioni, 2006.