giovedì 30 settembre 2010

Asce - Discorso immaginario sui gialli (seconda parte)

Dieci piccoli indiani è stato il primo libro per adulti che ho letto, e il primo giallo, anche, che ho letto. Che ora, poi si dice ora ma non è ora, è un po’ di tempo fa, allora, un po’ di tempo fa ho ripreso in mano qualche libro della Christie, non riesco più a leggerli. Mi sembrano così banali, così vuoti. Mentre a tredici, quattordici anni leggevo solo gialli, e in particolare solo gialli di Agatha Christie, ora non riuscirei a leggerne uno in un mese. Son cambiato.

Me lo ricordo benissimo, il giorno in cui ho comprato Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie, edizioni gli Oscar Mondadori, costo 7 euro, art director: Giacomo Callo. Era poco prima di Natale, ero già in vacanza, e dovevo leggere per i compiti di italiano Dieci piccoli indiani di Agatha Christie e Sogno di una notte di mezza estate, di William Shakespeare. Li avevo presi in una libreria in centro ad Alba e, mi ricordo, tornando indietro al parcheggio dove era la nostra macchina, c’era la neve, erano le sei di sera, forse anche le sette, avevo detto a mia mamma che non volevo leggere i libri delle vacanze, che Shakespeare era noioso e pesante e Agatha Christie mi faceva paura. E io Shakespare e Agatha Christie non li avevo mai letti.

Ma era una di quelle mie cose di cui mi convinco, e mi convincevo, che poi a togliermele dalla testa ci vogliono le asce, e poi, quando mi accorgo che i miei pregiudizi erano sbagliati, infondati, stupidi, mi sento sempre piccolo, e mi vien da parlare piano.

E poi l’avevo letto in due giorni, Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie, edizioni gli Oscar Mondadori, costo 7 euro, art director: Giacomo Callo, e mi era piaciuto da morire. Solo che, e questa cosa mi fa pensare, appena arrivato a casa, avevo aperto il libro per leggere la prima parola e l’ultima del libro, come facevo sempre, e, in pratica, avevo già letto chi era l’assassino.

Mi fa pensare perché mi viene da chiedermi: e se non avessi il nome dell’assassino prima di iniziare il libro, sarebbe cambiato qualcosa? Mi sarebbe piaciuto lo stesso? O di più? O di meno? E ora leggerei ancora gialli, se non avessi letto il nome del primo assassino del mio primo libro giallo, prima di iniziarlo, il mio primo giallo. Son cose che fanno pensare, per me. è un po’ come quella storia del What if..?, mi sembra ci siano anche dei libri su questa cosa, cioè: cosa sarebbe successo se.. qualcosa. Di solito si fa con la Storia, questo discorso, la storia studiata a scuola, istituzionalizzata. Ma a pensarci lo si potrebbe fare anche con la Storia Personale, che per come sono fatto io ha la stessa importanza della Storia Universale. Sarei lo stesso se, invece di andare a leggere l’ultima pagina, fossi andato a bere un sorso d’acqua e me ne fossi dimenticato? Secondo me no, ma non saprei dire altro.

Forse è ora di fare una puntualizzazione, di aprire una parentesi, per quelli che Dieci piccoli indiani non l’hanno letto. Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie, parla di dieci persone riunite su un’isola deserta, sole, fra le quali si aggira un assassino che lentamente uccide uno per uno tutti i suoi compagni. E nella casa dove stanno c’è una specie di scultura, con dieci negretti, e ogni volta che uno muore scompare un negretto.

E poi muoiono tutti tranne due, che si ammazzano a vicenda, e si crede che tutto sia finito, ma si scopre che uno di quelli che erano morti tempo prima non era morto veramente, fingeva soltanto, e, quando poteva, si alzava e andava a ammazzare gli altri. Ecco, l’assassino è il giudice Lawrence Wargrave. Così, per rovinarvi il finale.

Che magari ora vi ho pure cambiato la vita, che non è che sia per forza una cosa buona, o per forza una cosa cattiva, però magari poi, fra tanti anni, mi ringrazierete.

Ma molto più probabilmente no.

Asce - Discorso immaginario sui gialli (prima parte)

Ho scritto un romanzo breve, in quarta ginnasio. È la copia esatta di Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie. L’ho scritto tutto a mano, su un quadernetto di taglia piccola con la copertina rigida, di cartone. A matita, con la grafia che avevo 6 o 7 anni fa, una grafia che ora, a guardarla, mi sembra orrenda. L’ho ritrovato stasera, nel cassetto dove per anni ho messo le cose che scrivevo: per la maggior parte poesiacce da adolescente deficiente. Era in cima a tutta quella pila di fogli, e me l’ero scordato. Ho aperto il libricino e sulla prima pagina c’è scritto:

Alunno/a: Dellapiana Andrea

Classe:

Scuola: IV gin A

Materia: Gialli

Sottolineato due volte.

Ricordo che l’avevo portato in giro per mesi, quel quadernetto. L’avevo fatto leggere a mia zia, e gliel’avevo portato il giorno del funerale della mia bisnonna. L’avevo portato a una collega di mia madre e probabilmente pure alle mie cugine. L’avevo fatto leggere anche a mia madre.

Prima dell’inizio del romanzo avevo scritto tutti i nomi dei personaggi con una breve descrizione per ognuno, per aiutare i lettori , credo d’aver pensato quand’ero troppo piccolo per rendermi conto di quanto fossi stupido.

Jack Smith (che vergogna): Propietario del Gothic Hotel (voglio morire. Il Gothic Hotel…)

Mary Smith: sorella di Jack e prop. del Gothic Hotel

Emily Brosten: vecchia signora casa e chiesa

Anthony Fishers: proprietario di un negozio di alimentari

Vera Nickson: moglie di A. Fishers

Edward Clopper: star della tv in declino

Din Anyston: giudice

Andy Fent: magistrato di mezza età

Bob Matterson: avvocato di Boston

Si vedeva già allora che a inventare i nomi ho sempre fatto schifo.

Poi inizia il romanzo:

I

“Jack! Jack! Vieni, veloce, oddio mi sento male, Jack! Nel roseto.. L’hanno ucciso.. Bob Matterson è morto, vieni!”

Furono queste parole che svegliarono improvvisamente Jack Smith, proprietario del Gothic Hotel insieme a sua sorella Mary, che stava tranquillamente dormendo.

“Cos’è successo, Mary? Cos’è successo? Sto scendendo, arrivo!”

Mary era davanti al roseto, sbiancata, sconvolta, muta dopo tante parole.

“Oddio, è terribile” disse piangendo e buttandosi fra le braccia di Jack.

“Cos’è successo, dimmi, perché stavi urlando in quel modo?”

Ecco, io, ora, comprassi un libro che inizia così, chiuderei il libro, lo poserei sul divano un attimo, salirei di sopra, accenderei il computer, cercherei su Google il nome della casa editrice, cercherei nel sito un indirizzo mail al quale scrivere, tornerei di sotto a prendere il libro, ne ricopierei l’inizio e scriverei, dopo, in f fondo:

“Voi siete dei deficienti. Spero che la morte vi prenda di sopravvento.

Andate a lavorare in una televisione regionale, lì vi prendono sicuro.”

E, poi, tornerei in salotto e starei un po’ lì senza far niente.


Non finisce mica lì, il primo capitolo, ma non ho intenzione di copiarne altre parti. Solo che sfogliandolo ho notato delle correzioni, in penna blu, delle cancellature e delle freccette, e mi è tornato in mente che quelle erano le cancellature di mia zia, che l’aveva letto, l’aveva corretto e poi quando me l’aveva ridato mi aveva detto: “Bello, manca un po’ di approfondimento psicologico. Bravo però.”

E ora mi immaginavo la pena e, o, il divertimento di mia zia, a leggere quella roba. Io mi sarei vergognato per me stesso, non fossi stato me stesso ma fossi stato mia zia.

E poi mi chiedevo che ragazzino dovessi essere stato. E che periodo dovesse essere stato, quello, da mettermi lì e, a mano, scrivere un romanzo. Dev’essere stato un periodo felice, penso. O almeno un periodo in cui non avevo proprio niente da fare e tanta voglia di scrivere. Di sicuro era appena iniziata la mia passione per i gialli, e l’aver imitato Dieci piccoli indiani non è affatto un caso, anzi.

domenica 26 settembre 2010

Cose che mi vengono in mente mentre mangio dei cereali alle tre di notte

Per me il segreto dello scrivere é: scrivere.
Non c'è niente da fare, uno bisogna che scriva, se vuole scrivere; senza preoccuparsi, che poi le cose vengono. Bisogna scrivere, anche se sai già che quella frase la cambierai, che probabilmente poi la cancellerai, ma non importa, bisogna scrivere. Altrimenti poi uno si perde a cercare la frase perfetta, e ci sta su delle ore, a pensare e ripensare, davanti alla pagina bianca, e invece no, bisogna scrivere, subito, appena poggiate le dita alla tastiera, lasciarsi prendere dal ritmo dello scrivere, che poi magari quella frase che hai tanto pensato, tanto perfetta, te la dimentichi e non la trovi più, e intanto non hai scritto niente.
Uno scrive, scrive, e le cose arrivano in modo che non te lo aspetti nemmeno, e arrivano anche delle cose, che non te le aspetti nemmeno, che manco volevi scriverle, manco sapevi di potere considerarle. E escono che sembrano venire da sotto, dalla pancia, da sotto la tastiera, da sotto le mani, contemporaneamente. Poi, una volta che hai finito, perché bene o male te ne accorgi che hai finito: è come se si chiudesse un buchino, come se si fosse buttata fuori tutta l'aria possibile, ecco, poi, quando uno ha finito, allora, solo allora, secondo me, è giusto mettersi lì e rileggere, ricontrollare, e perdere delle ore, o anche solo dei minuti, a correggere una virgola, a spostarla un po' più in là, a togliere una parola, poi a riaggiungerla, poi a metterla ma un po' diversa, a togliere delle parti, a metterne delle altre, a cambiare la disposizione dei paragrafi. Ma dopo, dopo.
è come dire: Ecco, ora hai disteso un filo di gomitolo sul pavimento, l'hai disteso tutto. Adesso hai tempo di metterlo a posto, di avvicinare bene i fili l'uno con l'altro (che poi è un filo solo, a pensarci), di togliere i pelucchi, di compattarlo, di farlo sembrare un tappeto.

Collega

Questo pomeriggio camminavo da solo per Torino, portando in mano la custodia con dentro la chitarra elettrica che mi era appena stata regalata, stavo andando a cercare un mercatino di dischi usati, e, mentre camminavo, mi rendevo conto che stavo camminando in un modo diverso, da quello solito, quasi mi sentissi più sicuro, più definito, con quella chitarra in mano. Quella custodia era un messaggio, velato, che però, mi sembra dicesse chiaramente qualcosa di me .
Tutti quelli che incontravo per strada si fermavano un attimo a guardare la custodia e poi me, e a un certo punto ho incontrato un signore sui cinquant'anni, un cosiddetto musicista di strada, molto abbronzato, un po' sporco a dire il vero, con un sassofono in mano, che veniva nella direzione opposta alla mia. Mi ha notato subito, e, mentre camminava, gli si è aperto sul volto un sorriso stupendo, e gli occhi gli si sono illuminati, e ha toccato, ma solo un attimo, delicatamente, il suo sassofono come a dire: Ciao collega, sono contento. Spero ti vada bene.

venerdì 10 settembre 2010

E

E io m'ero dimenticato, di come sia bello, svegliarsi al mattino presto, alle otto meno venti.

giovedì 9 settembre 2010

Cose che capitano

Stamattina mi son svegliato, ho guardato l'ora sul cellulare, le dieci e mezza. Perfetto, ho pensato, ho sentito la sveglia. Ieri sera sono andato a dormire alle cinque e mezza e stamattina ho sentito la sveglia. Posso studiare, ho pensato.
Poi, io, se quando mi sveglio di colpo non poso un attimo la testa sul cuscino prima di alzarmi veramente, non lo so, mi sembra di non essermi alzato, ma di essermi raddrizzato soltanto. Ci vuole un momento, per me, per capire di esser svegli.
Allora ho pensato, Son contento, mentre appoggiavo un attimo la testa al cuscino, e mentre lo facevo mi sentivo stranamente sveglio, come se nel sonno avessi aspettato di svegliarmi già da ore, e fossi stato lì, con gli occhi chiusi, ma solo per finta.
Ho rialzato la testa, ho fatto per prendere il cellulare e scendere: l'una e mezza.
Ci sono rimasto di un male, che mi ci ha fatto rimuginare per tutto il giorno. In cucina ero talmente confuso che ho girato per qualche minuto a vuoto, andavo verso un cassetto poi mi veniva in mente che non dovevo aprire quello, per prendere la padella per farmi pranzo, e così per un bel po'. E pensavo Non è possibile, non è possibile, è stato solo un secondo.
Poi mi son svegliato. Che in quei momenti lì, quando ero confuso, ma me ne sono reso conto poi dopo, io in verità stavo ancora dormendo, e mi stavo chiedendo come potesse essere successa, una cosa così.