mercoledì 22 gennaio 2014

L'inizio dello scotch

Ogni volta la stessa situazione. Mancano pochi giorni alla consegna dell’articolo e non ho ancora scritto una riga, non so da dove partire e non so nemmeno su che cosa scriverlo.
 Il problema, quasi sempre, è che non trovo l’inizio del discorso. Come con lo scotch, che da bambino ci ho perso chissà quanto tempo, a cercare l’inizio dello scotch. Mi metto lì, seduto, le mani sulla tastiera, cerco un inizio, provo a scrivere, ma non concludo nulla. In due giorni che ho provato a scrivere ho aperto  e lasciato bianchi una decina di documenti word, ho pensato e ripensato, mi sono sforzato di trovare uno spunto in qualche libro, ma niente. 
Allora mi sono detto che è tutta questione di esercizio, che bisogna sciogliersi, riscaldarsi; come quando si fa ginnastica. E così ho fatto, in questi due giorni: ho iniziato a scrivere senza nessuna direzione specifica, soltanto come esercizio, per prenderci la mano. E il risultato è stato che ho scritto, anche con facilità, due pagine di niente, in cui, per qualche migliaio di battute, parlo di niente.
Poi mi metto lì, mi dico Adesso comincio. Niente.
Insomma, procrastino.

 È un problema parecchio diffuso, credo, quello del procrastinare, e, almeno per me, la procrastinazione è  uno dei miei difetti con il quale ho più spesso a che fare, nella mia vita. Ad esempio mi ricordo il periodo in cui dovevo scrivere la tesina per l’esame di maturità, qualche anno fa, che era una cosa importante, che richiedeva un certo impegno, e mi ricordo, dicevo, che avevo aspettato fino all’ultimo per iniziare a scrivere, e avevo costantemente rimandato facendo dell’altro, invece di mettermi lì e provare a tirar fuori qualcosa di concreto, che era poi l’unica cosa che avevo da fare. L’ho poi scritta in tre giorni, la mia tesina, gli ultimi tre giorni a disposizione, con la relativa ansia e oppressione che un caso del genere poteva darmi. Anche il mio primo esame all’università, 1200 pagine da studiare, 5 libri da leggere, l’ho preparato in due settimane.
La cosa particolare, forse, è che all’esame ho preso 30 e la tesina è uscita bene; cioè mi son reso conto, negli anni, che col fiato sul collo, anche se è una sensazione che detesto, lavoro bene comunque; anzi, forse, per il modo sbagliato in cui sono fatto, è l’unico modo in cui riesco a lavorare. E anche nei libri, per esempio, mi piace sentire quella sensazione lì, di una cosa tirata via per il rotto della cuffia, come si dice, non so se mi spiego, di un fiato sul collo che spinge in avanti la narrazione, di una certa pressione, in qualche modo.

C’è un video su Youtube che mi piace moltissimo, si intitola Procrastination, e ogni tanto mi vien da pensare che se si potesse mettere un video sulla carta d’identità, io forse metterei quello. È un video animato, disegnato, dove c’è una voce fuori campo che dice, in inglese, “Procrastination is” e poi semplicemente una lista di azioni tipiche del procrastinare, e alcune di queste azioni, tradotte, suonano così:
 “Procrastinare è evitare di fare qualcosa. è non essere in grado di iniziare. È leggere un libro. È temperare la matita. È farsi una tazza di the. È trovare il modo più difficile di fare qualcosa; è saltare da un’idea, a un’altra, a un’altra. È guardare alla finestra, è guardare i vicini, è guardare la televisione, è non essere capaci di smettere di guardare la televisione. È farsi una tazza di the. È fumare una sigaretta.  È ordinare la scrivania. È giocare ai giochi del computer. è fare un sonnellino. È iniziare otto cose contemporaneamente e non finirne una. È farsi una tazza di the. È scrivere delle liste. È cercare di evitare l’inevitabile. Procrastinare è aspettare il postino; è non essere capaci di decidere come fare una cosa; è complicarsi la vita da soli; è non sapere quando finire qualcosa; è non sapere come, finire, qualcosa.”
Ecco, questi, che, naturalmente, sono solo degli esempi, credo rendano bene l’idea dell’impegno nel non impegnarsi, se così lo si può chiamare, di cui ho parlato prima.

E, pensando a quel video, mi è venuto in mente che procrastinare significa, in fin dei conti, scegliere la via più facile, come ad esempio scrivere due pagine sul fatto di non saper che argomento scegliere per un articolo invece di scriverlo, come ho fatto io, oppure rimandare in continuazione una scadenza; significa, insomma, evitare di affrontare uno sforzo.

Scrivere, quando per scrivere si intende almeno provare a scrivere qualcosa che abbia un valore, una forza, e, nel caso di un articolo, un minimo di comunicatività, io credo sia un atto di solitudine, di concentrazione, di preparazione e, di conseguenza, un’azione che richieda, almeno per quanto mi riguarda, un certo sforzo.

A pensarci, infatti, quando arriva il momento di scrivere un articolo, dopo aver ovviamente rimandato abbastanza, la difficoltà iniziale che provo,  cioè quella sensazione di non saper da che parte iniziare, è semplicemente la reazione della mia testa, se così si può dire, allo sforzo di mettere assieme qualcosa che stia in piedi, di fare qualcosa di buono, insomma, che abbia un senso e una dignità. E per fare questo, ovviamente, devo smettere di procrastinare.

Il punto è che, una volta iniziato, e anche una volta finito, succede l’esatto opposto di quello che succedeva all’inizio: dal non riuscire a fare, passo al voler fare meglio, al voler fare di più. è come se, una volta uscito da quel meccanismo di continuo rimando, non fossi mai pienamente soddisfatto di quello che faccio.

Ieri notte mi è capitato di vedere il video di un’intervista dello scrittore americano David Foster Wallace, e a un certo punto Foster Wallace dice: “Il perfezionismo è molto pericoloso, perché se la tua fedeltà al perfezionismo è troppo alta, non fai mai niente. Perché fare qualcosa risulta in qualche modo tragico, perché comporta sacrificare quanto stupendo e perfetto quel qualcosa è nella tua testa, per quello che realmente è.”
E ho pensato che lo scrivere un qualcosa che non sia solo per me, ma anche per gli altri, come un articolo, mi sembra sia una mediazione fra questi due impulsi, cioè quello istintivo della difficoltà di iniziare a fare, e quello dell’aspirazione, ovviamente mai perseguita, al perfezionismo.

E mi sembra che il senso generale, di questo scrivere, almeno per quanto mi riguarda, stia appunto in questo sforzo; e che il risultato, di questo sforzo, di questa trazione, sia appunto un movimento, uno smottamento, semplicemente: un cominciare.