martedì 31 maggio 2011

Blabla

Ti accartoccerò i polmoni e ci soffierò dentro come in un palloncino. Riscatterò i terreni occupati della tua fronte e soffierò del sapone sulle tue rughe d’angoscia. Spargerò del sale. ti disinfetterò il sangue. E ripulirò le tue urne nascoste, le tue mine disperse. le luciderò con un altoparlante e ricoprirò le tue coperte con del nastro isolante. Raccoglierò le puntine in una scatola di cartone, la brucerò con un proiettile nel cuore. E ripeterò le nostre preghiere incompiute, ripeterò tutte le nostre preghiere incompiute. le lascerò marcire nella mia bocca, le lascerò fiorire nella mia stanza. Risanerò le paludi delle tue orecchie da tutti le cantanti. Aprirò un conto corrente per le tue perdite di sangue.

lunedì 30 maggio 2011

Diapositive

Le mezzelune lasciate dalle tazze di caffè e i treni che ritornano all’alba. I nostri “oggi” di tre giorni, e tutte le volte che sono rimasto solo. Gli echi delle canzoni nelle camere della nostra vita. I fili lunghi dei miei pensieri e questo ghiaccio viscido, scuro. I miei giorni ciclici di decadenza e di sonno. Le mie presunte ore universitarie passate in stazione lontano dal caldo. Continui principi di commozione. Continui e inaspettati.

giovedì 26 maggio 2011

Un sogno

Stamattina ho fatto un sogno stranissimo.
Ho sognato che ero a Bra, di sera, e dovevo andare in qualche viuzza minore a parlare col chitarrista dei Massimo Volume, e che facevo una fatica bestiale a trovarla e poi la trovavo, e non ero più a Bra, ero in un altro posto che non avevo mai visto e dovevo trovare parcheggio, e non lo trovavo. Poi parcheggiavo, evidentemente, perché un secondo dopo ero a piedi, ma non mi ricordavo più dove avevo parcheggiato. E allora mi mettevo a cercare la macchina, non la trovavo, giravo in tutto quel vicolo ed era pieno di macchine simili alla mia, ma parcheggiate ovunque, anche in dei posti un po' strani, come per esempio sulla striscia che divide le due carreggiate, anche se lì, in quel vicolo, era un po' improbabile ci fossero due carreggiate, anche perché era tutto lastricato col porfido, era stretto, era anche un po' improbabile che ci passasse una macchina, a dirla tutta, in quel vicolo, ma lasciamo perdere, dicevo, era pieno di macchine simili alla mia, ma un pelo differenti.
E poi a un certo punto avevo perso anche le scarpe, e giravo in questo vicolo, che io nel sogno dicevo fosse Milano, ma non era Milano, ed era pieno di scarpe, per strada,
anche di calzolai, di scarpe vecchie, nuove, di scarpe grandi, da muratore, di ciabatte, di scarpe da donna, coi tacchi, senza tacchi, di scarpe da lavoro, e mi ricordo benissimo un paio di scarpe enormi, che, nel sogno, correndo, mi ricordo che mi ero chiesto di chi potessero essere, quelle scarpe lì.
Ma andavo così veloce, e così deciso, di qua e di là, per il vicolo a cercar le mie scarpe, che da sveglio mi è venuto da pensare che io le scarpe ce le avessi ancora ai piedi, ma non sono sicuro.

lunedì 23 maggio 2011

Sul portone di casa

"Home, home again..."

Scrivere è come pisciare. Ha gli stessi tempi, gli stessi dolori, gli stessi sollievi. Nient’altro da dire. Esce sempre dal di-dentro, non è mai il di-fuori. E punge, ed è un bisogno. Lo si deve fare. E se non lo si fa, fa male. Ci si può giocare, con le attese. E col piacere della pisciata.

Vorrei tanto che mi raccontassi la tua storia. E poi raccontarti la mia.

"...i like to be here when i can"

Perché non ti ho mai raccontato la mia storia?

È pieno di coincidenze sulla dissoluzione, in questi giorni.

Scalini

Arrivo in biblioteca con dieci minuti d’anticipo. È già aperta. Entro, mi siedo, tiro fuori i libri, un foglio e inizio a scrivere. Mi sento al sicuro.
Mi sono messo nell’angolo più nascosto che ci sia, sul tavolino sotto le rampa di scale che porta al magazzino di sopra. Il muro davanti a me è ricoperto di scritte colorate, disegni, insulti, dichiarazioni d’amore e di amicizia eterna. Alzo lo sguardo e mi rendo conto che anche gli scalini, da sotto, sono scarabocchiati.
Mancano quattro giorni agli esami e sono nella merda. Penso che devo andare a Torino a stampare gli statini. Forse questo pomeriggio, mi dico.
È un periodo questo in cui quasi tutto mi scoraggia o mi spaventa. Anche il freddo. Il freddo mi mette a disagio. Passo sempre negli stessi posti, più o meno alle stesse ore. Alle sette e mezza mio padre mi lascia in macchina dietro la stazione; entro nel bar dall’altra parte della strada a fare la seconda colazione della giornata e rimango lì dentro fino alle nove meno un quarto. Leggo. Pago, esco e vengo qui in biblioteca. Provo a studiare. Ci riesco al massimo per un’ora, poi mi sale l’ansia e non riesco più a fare nulla.
Sto studiando geografia. Alle dieci vado a prendere un caffè alla macchinetta che c’è all’entrata. Poi torno sopra a fingo di studiare fino alle undici e mezza. A volte non faccio nemmeno finta: prendo un libro e inizio a leggere.
Ultimamente è un periodo che ho delle frasi ricorrenti in testa. Come: “Sognai di voler dormire. “
Ho sonno. È da due giorni che ho nostalgia del mio letto, al bar. A volte mi viene da piangere. Voglio tornare a casa a dormire. Ma non posso. Devo studiare. Ma non riesco.
A mezzogiorno la biblioteca chiude, allora torno al solito bar per mangiare pranzo. 9 euro, un piatto, acqua, caffè e dolce. Rimango seduto a un tavolino fino alle due. Poi torno in biblioteca. A quel punto della giornata non ho giù più alcuna voglia di studiare. Resisto fino alle tre e mezza, poi chiamo un amico e gli chiedo di uscire. Di solito ci vediamo. Stiamo in giro fino a notte fonda.
Ho attacchi d’ansia per gli esami. Vanno e vengono. Si alternano a momenti di rassegnazione, a momenti di menefreghismo, a momenti in cui non so nemmeno io cosa succede. È un periodo in cui ho paure e desideri incontrollabili.
Sono le nove e venti e in bilioteca non c’è nessuno. Mi dico che sarebbe meglio studiare. Ci provo. Sale l’ansia.
La gente mi cammina sulla testa, non ci avevo mai pensato.

mercoledì 11 maggio 2011

Per aria

Sono appena caduto dalle scale. È stato un secondo: un piede è scivolato, il resto l’ha seguito. Mezza scala. Schiena, gomito, fianchi, culo. Gli occhi spalancati. La mano aggrappata al corrimano.
Il tonfo.
Mi rialzo e vado in cucina a farmi un caffè. Riaffrontare le scale ancora doloranti è la cosa più difficile, penso. Penso con quale mano tenere la tazza e con quale aggrapparmi al corrimano. Penso se dare il peso al gomito o lasciarlo riposare. Si muove male, a fatica. Poi sulle scale mi viene in mente che il corrimano non lo uso mai e faccio le scale a passoni da gigante disegnato, alzando i piedi oltre il normale.
E mi viene in mente il finale di Grandi Ustionati di Paolo Nori: "Ma la cosa più brutta, di cadere giù per le scale, non è quando prendi la botta che ti fa male, la cosa più brutta è il momento che te sei per aria, le gambe in avanti, ti rendi conto che la botta, è questione di poco, sta per arrivare."