domenica 13 luglio 2014

La macchina

La tristezza è una macchina pesante, abitudinaria, pretenziosa, e, una volta installatasi nel corpo di chi assoggetta, col suo peso, lo tira, costantemente – naturalmente - verso il basso, giù. Giù se ne vanno le labbra, giù le palpebre e gli sguardi, giù le braccia, giù, per i pesi maggiori e i casi più disperati, anche le schiene.
È una macchina viziata, infantile (checché ne dicano i luoghi comuni riguardo una certa spensieratezza, a loro dire propria, dell’infanzia) e per questo lunatica, taciturna, dispotica. Ha sempre – sempre – bisogno di contrappesi per non attivarsi, sempre presenti e costanti, sennò… ecco il patatrac, il disastro, il malanno emozionale, la spossatezza, lo scoramento.
Tale macchinario, difficilmente collocabile all’interno del corpo umano, ma solitamente ritrovato nella cassa toracica, nel petto, viene percepito, da chi se lo ritrova “dentro”, come un aggeggio ingombrante, invecchiato male e in fondo superfluo, come una vecchia ed enorme stampante di qualche decennio prima che, se solo si volesse, si potrebbe anche buttare via.

Nonostante sia ormai un rottame, la macchina funziona, eccome se funziona, funziona sempre, e a volte non la si riesce più a spegnere. Al massimo la si può tenere buona, illudersi di averla messa da parte, di averla buttata – scassata- con un lancio euforico in qualche anfratto della cassa toracica; ma basta un’inezia, una pulce: una piccola mancanza, un minuto di troppo di attesa, una parola azzardata, un silenzio mortificante, ed ecco che la macchina ricomincia a girare, con quel suo ronzio – più un lamento che un rumore – straziato e imperturbabile.
È una macchina inutile, fuori tempo, pensano quelli che se la portano appresso, soprattutto dopo una certa età, ma la macchina, nonostante tutte le Ragioni, continua a restare.
Il peso, a volte, porta quelli che la sopportano a ribellarsi, in un atto di ira disperata e gioiosa, alla macchina, a voler farla finita, con questa tristezza; perché il peso, oltre a far male, mortifica e umilia.

Ma è solo uno slancio momentaneo. Non può,  crede chi sopporta la macchina “dentro”, liberarsene: sarebbe come gettar via se stessi. Alcuni, pur di non sopportare più il peso, lo fanno: si buttano loro e la macchina, con gesti a volte plateali, a volte silenziosi e sofferti, ma il rumore che fanno – tutti – è sempre lo stesso: un gran frastuono vuoto e sonoro di un attimo, e poi il nulla.