giovedì 30 settembre 2010

Asce - Discorso immaginario sui gialli (prima parte)

Ho scritto un romanzo breve, in quarta ginnasio. È la copia esatta di Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie. L’ho scritto tutto a mano, su un quadernetto di taglia piccola con la copertina rigida, di cartone. A matita, con la grafia che avevo 6 o 7 anni fa, una grafia che ora, a guardarla, mi sembra orrenda. L’ho ritrovato stasera, nel cassetto dove per anni ho messo le cose che scrivevo: per la maggior parte poesiacce da adolescente deficiente. Era in cima a tutta quella pila di fogli, e me l’ero scordato. Ho aperto il libricino e sulla prima pagina c’è scritto:

Alunno/a: Dellapiana Andrea

Classe:

Scuola: IV gin A

Materia: Gialli

Sottolineato due volte.

Ricordo che l’avevo portato in giro per mesi, quel quadernetto. L’avevo fatto leggere a mia zia, e gliel’avevo portato il giorno del funerale della mia bisnonna. L’avevo portato a una collega di mia madre e probabilmente pure alle mie cugine. L’avevo fatto leggere anche a mia madre.

Prima dell’inizio del romanzo avevo scritto tutti i nomi dei personaggi con una breve descrizione per ognuno, per aiutare i lettori , credo d’aver pensato quand’ero troppo piccolo per rendermi conto di quanto fossi stupido.

Jack Smith (che vergogna): Propietario del Gothic Hotel (voglio morire. Il Gothic Hotel…)

Mary Smith: sorella di Jack e prop. del Gothic Hotel

Emily Brosten: vecchia signora casa e chiesa

Anthony Fishers: proprietario di un negozio di alimentari

Vera Nickson: moglie di A. Fishers

Edward Clopper: star della tv in declino

Din Anyston: giudice

Andy Fent: magistrato di mezza età

Bob Matterson: avvocato di Boston

Si vedeva già allora che a inventare i nomi ho sempre fatto schifo.

Poi inizia il romanzo:

I

“Jack! Jack! Vieni, veloce, oddio mi sento male, Jack! Nel roseto.. L’hanno ucciso.. Bob Matterson è morto, vieni!”

Furono queste parole che svegliarono improvvisamente Jack Smith, proprietario del Gothic Hotel insieme a sua sorella Mary, che stava tranquillamente dormendo.

“Cos’è successo, Mary? Cos’è successo? Sto scendendo, arrivo!”

Mary era davanti al roseto, sbiancata, sconvolta, muta dopo tante parole.

“Oddio, è terribile” disse piangendo e buttandosi fra le braccia di Jack.

“Cos’è successo, dimmi, perché stavi urlando in quel modo?”

Ecco, io, ora, comprassi un libro che inizia così, chiuderei il libro, lo poserei sul divano un attimo, salirei di sopra, accenderei il computer, cercherei su Google il nome della casa editrice, cercherei nel sito un indirizzo mail al quale scrivere, tornerei di sotto a prendere il libro, ne ricopierei l’inizio e scriverei, dopo, in f fondo:

“Voi siete dei deficienti. Spero che la morte vi prenda di sopravvento.

Andate a lavorare in una televisione regionale, lì vi prendono sicuro.”

E, poi, tornerei in salotto e starei un po’ lì senza far niente.


Non finisce mica lì, il primo capitolo, ma non ho intenzione di copiarne altre parti. Solo che sfogliandolo ho notato delle correzioni, in penna blu, delle cancellature e delle freccette, e mi è tornato in mente che quelle erano le cancellature di mia zia, che l’aveva letto, l’aveva corretto e poi quando me l’aveva ridato mi aveva detto: “Bello, manca un po’ di approfondimento psicologico. Bravo però.”

E ora mi immaginavo la pena e, o, il divertimento di mia zia, a leggere quella roba. Io mi sarei vergognato per me stesso, non fossi stato me stesso ma fossi stato mia zia.

E poi mi chiedevo che ragazzino dovessi essere stato. E che periodo dovesse essere stato, quello, da mettermi lì e, a mano, scrivere un romanzo. Dev’essere stato un periodo felice, penso. O almeno un periodo in cui non avevo proprio niente da fare e tanta voglia di scrivere. Di sicuro era appena iniziata la mia passione per i gialli, e l’aver imitato Dieci piccoli indiani non è affatto un caso, anzi.

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