La malattia era sopraggiunta cinque mesi prima, senza
troppi convenevoli, quando aveva appena ingranato la marcia giusta nella
scrittura del suo secondo romanzo. Aveva iniziato a lavorarci due anni prima, dopo
un lungo periodo in cui anche il minimo tentativo di iniziare qualcosa di nuovo si era rivoltato
contro di lui, testualmente, “con la stessa rapidità di una biscia appena
infilzata”.
Dieci anni prima era uscito il suo primo vero romanzo, o almeno quello che lui
sentiva come il suo primo vero
romanzo[1],
ed era stato un lavoro immenso, che aveva totalizzato la sua vita per i
precedenti quattro anni. Senza
esagerazioni: durante quel periodo non aveva fatto altro che scrivere o pensare
al libro, e quando non stava scrivendo si stava informando per continuare a
scrivere, o stava rileggendo ciò che aveva scritto, o controllando i suoi
appunti e i suoi schemi, e così via in un turbine di ossessione che, ne era
certo, lo avrebbe portato molto vicino al totale annullamento di sé e, se non
si fosse risolto in un qualcosa di concreto, all’esaurimento nervoso. La sua
concentrazione e la sua dedizione al libro erano state tutto ciò di meglio che
all’epoca potesse fare. Era indubbiamente
la cosa migliore che avesse fatto in vita sua.
Lo aveva consegnato all’editore, corrette per l’ultima
volta le revisioni e le note, esausto.
Il pomeriggio dopo aver dato la conferma alla stampa, quando
ormai il suo lavoro era definitivamente concluso, si era sentito vuoto, allo
stesso tempo libero e, per questo, ancora più vuoto. Gli ci erano voluti parecchi
mesi per riequilibrarsi dalla sottrazione del romanzo dalle sue mani, per
realizzare ed accettare che il libro fosse un prodotto ormai finito.
Quando il romanzo era stato pubblicato, l’accoglienza era
stata quella del capolavoro. I critici letterari più crudeli lo avevano
elogiato, le vendite erano alle stelle e nel giro di pochi mesi si era già alla
sesta ristampa. Considerando la lunghezza del libro, 1200 pagine, e la sua
complessità, la reazione era stata fenomenale.
Ora, dieci anni dopo, quando il soggetto del suo prossimo
romanzo si era ormai delineato, i personaggi avevano iniziato a prendere vita e
aveva trovato la voce, il passo, del romanzo, era arrivata la malattia.
Terminale. Un tumore. Nessuna speranza di salvezza.
Aveva sperato fino all’ultimo in una cura, confidando
nella possibilità di guarire e ricominciare il suo lavoro, ma gli mancavano
all’incirca due o tre mesi di vita, a quanto dicevano i medici, e poi sarebbe
morto. Si era ritrovato, allora, a scrivere contro la morte, con la
consapevolezza che l’opera da lui generata fosse troppo grande per essere
scritta, rivista e terminata in soli due mesi.
L’unica alternativa possibile, dunque, era continuare a
scrivere: strappare a ogni giorno una pagina in più, una pagina che fosse finita,
revisionata, buona, ben calibrata, pronta.
Non voleva abbandonare il suo lavoro, dato che Il Lavoro, come lo chiamava fra
sé e sé, era stato, fra il periodo di crisi e il periodo di preparazione e poi,
finalmente, quello di produttività, il centro della sua attenzione e della sua
preoccupazione per i precedenti dieci anni. Voleva che almeno qualcosa venisse pubblicato.
La decisione l’aveva presa appena aveva avuto la conferma
inderogabile della sua fine: avrebbe scritto, volontariamente, un romanzo
postumo.
Gli sembrava l’unica soluzione possibile. Aveva provato a
riassumere e sfoltire il romanzo, ma riscrivere ciò che aveva già scritto gli
avrebbe portato via, lavorando come un matto almeno un mese di tempo, e ciò che
già aveva scritto aveva il respiro, la veduta, di un qualcosa di ampio e
lunghissimo. Probabilmente sarebbe stato anche questa volta un romanzo di un
migliaio di pagine. L’unica soluzione era continuare a lavorare, fino alla fine,
per quanto possibile.
Poco prima di morire, cioè nell’attimo in cui scrivere
sarebbe stato impossibile, avrebbe
chiuso e salvato il documento sul suo computer, e avrebbe espresso a sua moglie,
come sua ultima volontà, il desiderio di far pubblicare quel documento come
romanzo postumo. Solo ed esclusivamente quel documento.
Non voleva un tomo di 500 pagine di abbozzi e prime stesure,
sarebbe stato vergognoso; voleva invece che venissero pubblicate solo quelle
pagine che, se fosse rimasto in vita, sarebbero state quelle buone, quelle che, probabilmente, non
avrebbe più modificato o ritoccato troppo.
La sua stima era all’incirca di 250 pagine.
A quel punto della vicenda, cioè dove aveva deciso di
applicare la sua ultima e inevitabile cesura,
solo uno dei tre nodi principali del
romanzo sarebbe stato pienamente sviluppato, ma il fatto che gli altri due
sarebbero stati appena enunciati lo consolava: sarebbero parsi come dettagli o
abbellimenti del primo, evitando di sbilanciare troppo la narrazione senza
concluderla.
Il gesto più difficile era stato indubbiamente quello: decidere
dove finire. L’atto della cesura
avrebbe conferito al romanzo un senso superiore
al suo senso oggettivo. Decidere dove porre la parola fine[2]
era la sua ultima possibilità di agire attivamente contro la morte. Consapevole
della sua sconfitta, non si sarebbe spinto oltre, facendosi trovare dalla morte
vergognosamente impreparato, ma sarebbe rimasto saldo e immobile sul posto,
aspettando e lavorando. E proprio quel gesto pienamente volontario di cesura, esito di una disperazione lucida
e senza sgomento, sarebbe stato il motivo primario per pubblicare il libro.
Era sempre stato ossessionato dagli inizi e dalle fini,
sia in letteratura che nella vita reale, e lo sforzo maggiore, ma in qualche
modo anche il piacere più intrigante, era stato quello di accettare la sua fine, di sentirla delimitare il suo
campo d’azione e di passare da animale braccato, quale ormai era nella vita
reale, a “dio demiurgo”[3]
nel suo romanzo, e imporre al
romanzo, come era stata imposta a
lui, una fine.
La fine, anche nel romanzo, sarebbe arrivata inaspettata,
come un imprevisto: un blackout, che avrebbe lasciato al buio un’intera sala da
pranzo dove due dei protagonisti si erano ritrovati a cenare.
Mentre continuava a scrivere però, pur avendo già pre-determinato l’ultima scena del romanzo,
non riusciva a smettere di pensare ossessivamente a come sarebbe stata l’ultima
pagina, l’ultima riga. Ogni tentativo, sforzo o appunto a riguardo gli era
sembrato artificioso o troppo premeditato.
Così, a poche settimane dalla sua fine, un mattino in
cui il dolore gli impediva di concentrarsi sulla scrittura, si decise per la
scelta più difficile, ma, in fin dei conti, la più naturale.
L’ultima riga, l’ultima pagina del romanzo, le avrebbe
lasciate per l’ultimo giorno di lavoro e per la persona che sarebbe stato quel
giorno. Consapevole della sua situazione ormai instabile, si rese conto che,
per evitare di perdere il controllo sul suo lavoro, la sua ultima vera
decisione sarebbe stata quella di stabilire, con una fiducia quasi animalesca
nel suo istinto e nel suo tempismo, quando
smettere di lavorare.
[1] La sua
prima pubblicazione, a voler essere oggettivi, era un romanzo, ma lo scrittore
riteneva quel libro “talmente uno schifo”
da sentirsi perseguitato perfino dall’idea di aver considerato di pubblicarlo.
[2] Che,
nella sua mente, coincideva con il porre
la parola fine alla sua stessa vita, in quanto l’unico gesto sensato e degno di
nota, nella sua vita, era stato il suo scrivere.
[3] Si
rendeva della leggera assurdità della sua affermazione e in alcuni momenti
l’aveva ritenuta parecchio infantile e disperata.
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