Mi succede, ogni
tanto, di rendermi conto improvvisamente di avere un corpo, una sensibilità; fondamentalmente, di
essere vivo. E in questi momenti è come se il mio livello di percezione del
mondo e di me stesso si alzasse vertiginosamente, senza preavviso. Ogni volta
che mi succede questa cosa mi viene su una felicità che non saprei descrivere e
non saprei nemmeno se chiamare felicità; però poi, in genere, subito dopo
questa cosa piacevole e positiva che mi sale su, ne viene su un’altra,
negativa, per niente piacevole, che si potrebbe tradurre col pensiero che,
appunto, se in certi momenti mi rendo conto di avere un corpo, di essere vivo, di
pensare, di respirare, eccettera, il resto del tempo no, che è un po’ come se
mi dimenticassi.
Ad esempio, una
volta, l’anno scorso, ero in macchina con un mio amico, stavo guidando, e sono
arrivato a un incrocio in cui dovevo dare la precedenza a destra. Mi ero
fermato, avevo guardato a destra, e nel mentre che guardavo a destra non mi ero
reso che dritto davanti a me, dall’altra parte dell’incrocio, era arrivata una
macchina alla quale avrei dovuto dare la precedenza. Invece io non so perché la
precedenza non gliel’avevo data. La macchina non si era mossa di un millimetro,
non aveva fatto niente. E quando il mio amico mi aveva fatto notare che non avevo dato la
precedenza, mi ero reso conto, non so per quale motivo, di stare ascoltando
Yankee Foxtrot Hotel, degli Wilco, che per me è un disco bellissimo, e alla
mancata precedenza invece non avevo dato il minimo peso. E da quella volta lì,
per me quell’incrocio è diventato l’incrocio degli Wilco, perché in quel
momento mi ero reso conto di essere vivo, di avere delle mani, di avere una
faccia, degli occhi, una testa che pensava e sentiva, un respiro; e ora, tutte le volte che ci passo, quello
per me è sempre l’incrocio degli Wilco.
Devo dire, però,
che queste prese di coscienza non è che mi capitino molto spesso, e l’ultima
volta è stato qualche giorno fa, non per qualcosa che mi è successo, ma per un
pensiero che mi è venuto. E la cosa che mi ha stupito, e che poi mi ha fatto
fare quel salto di percezione di me stesso e della realtà di cui parlavo prima,
è stata che quel pensiero l’avessi pensato io.
C’è un saggio degli
anni cinquanta di uno studioso russo che si chiama Bachtin, che si intitola La
parola nel romanzo, dove Bachtin dice che noi, le cose che diciamo, il
cinquanta per cento non sono cose che diciamo, sono cose che ripetiamo. E
quando avevo letto questa cosa in un libro di uno scrittore che si chiama Paolo
Nori e avevo letto che, secondo lui, a
oggi, quella percentuale delle cose che noi ripetiamo è salita al novantotto
per cento, avevo avuto anche lì una specie di illuminazione, una presa di
coscienza, che poi è stata la stessa sensazione che ho avuto qualche giorno fa,
quando mi è venuto questo pensiero mio, pensato da me: pensiero che suona bene
o male così, cioè che, secondo me, le famiglie sono dei romanzi.
E le
fondamenta di questo pensiero, cioè che
le famiglie sono dei romanzi, nella mia testa le ha gettate un signore che si
chiama Alejandro Jodorowsky, che di mestiere
fa lo scrittore, il regista e tante altre cose, quando in una conferenza ha detto che,
secondo lui, nella vita tutto è racconto.
E, da quanto ho capito, quando dice così, Jodorowsky intende dire che ogni
aspetto della nostra vita è sottoposto e informato
dalla parola, dalla mediazione, e
quindi, di conseguenza, dal racconto. La cultura è racconto, la morale è
racconto, le idee, anche, sono racconti, dice Jodorowsky.
E allora mi è
venuto da pensare che anche le famiglie siano racconto, romanzi, nel senso che forse c’è sempre qualcosa di
trasfigurato, di non oggettivo, nelle famiglie. Ci sono caratteri, nevrosi,
silenzi, ricordi, traumi, gioie, alleanze, polarità, e c’è sempre
un’evoluzione, nelle famiglie, che può essere più o meno percepibile ma c’è
sempre, e ci sono degli spostamenti, degli allontanamenti, degli allineamenti;
proprio come nei romanzi. E tutto questo, per l’importanza che ha, passa
attraverso la parola, e il suono della parola, e diventa romanzo. E pensavo
ancora che, per questo motivo, al di là di ogni giudizio, le famiglie trovino
la loro ragione di esistere proprio in qualità di romanzi, fra le altre cose. Che
non è che debbano essere delle macchine perfette, con dei meccanismi perfetti e degli esiti
perfetti, anzi, le famiglie sono poi sempre in parte sbagliate, mi sembra, e
hanno delle regole e dei meccanismi universali che allo stesso tempo sono anche particolari per ogni famiglia; che sono
poi quei meccanismi che influenzano delle vite intere, e delle personalità, e
delle reazioni.
C’è quell’incipit
famosissimo, di Anna Karenina, di Tolstoj, che dice: “Tutte le famiglie felici
si somigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.”, che riassume
benissimo quello che ho scritto fin’ora e, a proposito di quell’incipit lì, son
sempre stato convinto che quel “tutte” e quel “ogni” non fossero stati messi lì
per caso. È come se Tolstoj, usando due parole come “tutte” e “ogni”, due
parole simili ma dal significato parecchio differente, faccia già capire al lettore
quello che vuole dire in quella frase e in tutto il romanzo, credo, cioè che
ogni famiglia infelice è infelice nel modo proprio di quella famiglia, cioè nel
modo in cui quell’infelicità viene vissuta e quindi raccontata, mentre le
famiglie felici, sono felici, cosa vuoi dire di una famiglia felice?
Ma, più che tutto,
a pensarci, mi è venuto in mente che ogni famiglia ha il proprio modo di raccontarsi
attraverso le proprie storie, e quindi, ancor di più, ha un suo vocabolario, un
suo lessico. Che è poi il concetto che illumina in un modo chiarissimo Lessico Famigliare, di Natalia
Ginzburg, un libro che fa capire a
chiunque che il lessico di una famiglia è l’impalcatura della storia stessa di
quella famiglia; come se ogni parola o ogni frase tipica di una famiglia riassuma in sé storie intere, periodi andati,
epoche, persone; come se quel lessico fosse la cassetta degli attrezzi con la
quale una famiglia smonta e rimonta la realtà che la circonda e che quella
famiglia stessa crea. Che anche lì, una volta che uno l’ha letto, Lessico
Famigliare, come fa a rimanere indifferente?
Ed è proprio questo,
forse, il punto di questi momenti di autocoscienza: sono dei risvegli. È come
se la realtà in cui sono immerso ogni giorno, nel modo in cui la vivo per la
maggior parte del tempo, purtroppo, sia un’anestesia al mio senso della
meraviglia; e invece quando ho un’idea mia, quando mi rendo conto di essere
vivo, quelli sono i momenti in cui il
mio senso della meraviglia si risveglia, e lo fa da sé, senza che io lo decida.
E allora, pensavo, se la meraviglia è come un muscolo, e la realtà è l’oggetto
su cui deve agire, per tenerlo attivo bisogna soltanto allenarsi. E continuare
a farlo.
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