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mercoledì 16 novembre 2011

Un modo per uscirne - (appunti da Londra)

che con la sua nebbia, le sue anfetamine e le sue perle mi aveva lasciato il suo fiato nelle orecchie e dodici rivoluzioni ancora da metabolizzare. Ci cadevano addosso le verità nascoste male. ma avevamo il coraggio di non ricacciarle più di nuovo su. di darlo a vedere, che era tutto sbagliato. Adesso a fine gennaio dici che parti. E ci sono quelle mattine dove uno si sveglia e si chiede perché sta facendo la vita che sta facendo. poi però non è detto che cambi qualcosa. programmiamoci i viaggi. totalmente fuori tempo. e non cerchiamoci la scusa del controtempo: siamo totalmente fuori tempo.
ci sono cose che danno salvezza, come Jeff Buckley che canta Just Like A Woman. come certi blackout. E avrei delle domande da pormi. dei rumori di sottofondo.





Viaggiare sopra le macchine, le luci bianche e gli ingorghi. fra le strisce di notte che si vedono dai finestrini appannati. E l’azzurro gessetto di questo mattino sovrannaturale.

C’è un verde con una luce in centro. Ho scoperto che Geogaddi è il disco perfetto per viaggiare in aereo. è musica da occhi chiusi sopra il cielo. di arrivi e ritorni. Di colori che scompaiono.

Ho un letto a Londra, cosa voglio di più?

lunedì 26 settembre 2011

Ossi

I miei pensieri oggi puzzano di pennarello indelebile. e la tua testa è troppo interessante per essere così semplice. Mi affili la curiosità. mi affili la curiosità.
In cima al coma. guardavamo giù, e i nostri portafogli erano pieni di sangue. Seduti, in bianco e nero, su una macchina ferma sotto la pioggia.
Nei miei occhi ci sono dei cali di corrente. e la strada sembra sciogliersi anche se faccio i centoventi. Io e te ci siamo quasi distrutti la testa. . I nostri muri del pianto che crollano. e l’infinita infinità dell’infinito. I nostri muri del pianto in macerie. e una scatola di pesche piena di pietre in borsa. mentre continui a raccogliere piume ovunque.
Andare al di là dell’al di là. fra le pause e i solai. Anniversari di litigi e di scazzi salienti. come quella volta che avevate litigato per quei trecento euro di merda. e non siete mai tornati.

mercoledì 14 settembre 2011

Soft silly music is meaningful magical

I nostri occhi sono chiusi, perché le nostre strade del ritorno sono sempre piene di tir a luci spianate. e i rami che ti escono dalla bocca sanno di inchiostro e di fumo. Un giorno moriremo anche noi. e anche le nostre ceneri voleranno da un aeroplano sopra il mare. Le nostre aree verdi interiori. e le provincie dei nostri rapporti umani. Dici che la tua posizione ideale è fra il bianco e il nero. E gli occhi appoggiati sui rami ci squadrano tranquilli.
Tre euro per tenere accesi i nostri discorsi con quaranta candele colorate. Le alte e le basse maree. che alla fine tra i ciottoli rimane sempre qualcosa. I segreti nascosti, abbottonati stretti in una giacca. Com’è strano essere assolutamente niente.

martedì 6 settembre 2011

Tutto ciò che ha causato la pioggia

Piovono siringhe sulle tue colonne vertebrali giornaliere. E le gatte che arrivano le mattine dopo gli incidenti nei fossi. hanno gli occhi verdi trasparenti. Ed il bello è che io e te ci diciamo tantissime cose e per il momento è meglio che non ne parliamo. E per strada scivolavano le macchine. sbandamenti su sbandamenti. e portiere ammaccate e mille sbattimenti. Vorrei rubarti delle frasi. e non solo quelle.

giovedì 18 agosto 2011

Notte

Ci porteranno via, perché in fondo qui non abbiamo un cazzo da fare. se non suonare. le nostre chitarre da rischio e da rissa, aspettando elicotteri. su croci bianche d’atterraggio. Parliamo in sincronia perché io e te da qui ce ne andremo via insieme. Appostati negli angoli e sui cofani delle macchine, con la musica alta e delle pressioni dentro la gola. da scartare in silenzio, più tardi. Le mille occasioni che perdo e certe cose che stanno succedendo, che mai avrei pensato. Un Tiziano rinchiuso in una banca. da avvistare di notte dietro un vetro offuscato. con la luce come in una chiesa. Stavano smontando la città mentre parlavamo, ma più che tutto noi leggevamo Paolo Nori. E volano le penne sugli elicotteri e noi ce lo dimenticheremo. E anche questa si chiama malattia. anche questa sarà un’altra periferia. tempo di miserie e tempo di pulsazioni. tempo di miserie e tempo di pulsazioni. delle piccole storie, delle teste pensanti, delle vite spezzate, ricucite alla cazzo. e non si torna a casa, si rimane così, si rimane così, si rimane così. Non cantare quello che ti chiedo. e non mi chiedere quel che penso. Il tuo sorriso che ogni tanto sembra crollare. e spegni sigarette come sogni. E abituati perché sarà sempre peggio. sarà sempre peggio.

giovedì 21 luglio 2011

Vetro sottile

A degustare dei petali di rosa invetrati. seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi. 7 agosto di pomeriggio, e non una buca da stanare per queste mani fredde. Mettiamo il freno a mano ai pensieri, alle collere e ai desideri. I paraffi alle nostre illusioni. Fra le lamiere roventi di un cimitero, solo io silenzioso, eppure straordinariamente vivo. L’incazzatura cattiva che mi sale quando non trovo più un cd. e smonto stanze e sfascio letti fino a quando non lo trovo. Pile, plichi e cavalli. Annunci pubblicitari di mamme piangenti e di strisce di denti. E questo è l’anno del garofano rosso e dei soli nascenti. delle grandi aspirazioni. Inspira per rilasciare degli odori nella tua gola. Davanti ad un distributore automatico di fiori e di giorni migliori, anch’io rinchiuso in una bolla di vetro, nell’aeroporto di Bruxelles.

giovedì 9 giugno 2011

Quaranta watt

Le microfratture nelle nostre mani. tutti i giorni. I problemi agli occhi di Van Gogh. che vedeva il centro delle cose deformato. le sue ansie. Dei denti bianchi e quadrati che ho disegnato. delle dediche a dei nessuno innumerabili. e delle penne blu. come degli argini con poca selettività. La poeticità dei suicidi. dei cuori disegnati. dei cuori blu. è un periodo che non so mai che musica ascoltare. e il mio isolamento dal mondo trasmesso è ormai completato. L’amore per i plurali. Il ronzio del mio amplificatore che quando lo spengo crea un vuoto nella stanza. I vuoti non-a-rendere delle mie giornate. come quando mi annoio anche della noia. Certe frasi o certe parole che canto sempre nelle canzoni. Faccio promesse notturne a me stesso di giornate impegnate e operose, svegliandomi già al mattino con un ritardo colossale. Dopo, quando rileggo tutto, manca sempre qualcosa. Come ogni volta che rileggo una mia cosa vecchia, che mi faccio sempre schifo. La salvezza che mi danno certi vinili. Che se pioveva era perché avevamo bestemmiato troppo. L’aria che c’è dentro le lampadine, che non c’è. Ne tengo una in gola, sotto la lingua, e non è per schiarirmi le idee. che la ragione, no, quella magari lasciamola perdere.

sabato 4 giugno 2011

Einsturzende Neubauten - Appunti

tempi d'e/oro

Inizia tutto male. Il treno per Carmagnola delle 18 30 ha 40 minuti di ritardo, bisogna prendere quello per Cavallermaggiore e aspettare. A Cavallermaggiore due vecchi parlano da un binario all’altro. All’inizio mi sembra che parlino in piemontese, poi capisco che non è piemontese, è un’altra lingua. Sembra una scena teatrale. Uno era già lì seduto sulla sua panchina, sul binario uno, chissà da quanto, e l’altro arriva con un treno, che poi è quello su cui ero anche io, si siede per aspettarne un altro, e solo dopo un po’ si accorge del suo conoscente dall’altra parte. Il bello è che tutto questo lo sto scrivendo in presa diretta, mentre accade: i due stanno ancora parlando. Attenzione, treno in transito sul binario tre, allontanarsi dalla linea gialla. I due uomini si fermano ancora prima che arrivi il treno. Una volta passato non parlano più.

Bisogna cogliere la fine quando arriva, con prontezza. Sapere chiudere una storia, sapere chiudere un racconto, un rapporto, un discorso. Perché le fini sono tante e non ci danno pace. Bisogna avere la penna pronta per scrivere l’ultima frase e chiudere tutto in un cassetto. Bisogna essere pronti. E avere gusto. Le cose hanno una loro fine, se si appiccica loro addosso un’altra fine, una fine tarda, una fine prematura, una fine altra, le cose perdono equilibrio, cadono, non stanno più in piedi. È così bello sentire la fine che arriva, l’attimo in cui arriva, e godersela, in tutta la sua meraviglia.

giovedì 26 maggio 2011

Un sogno

Stamattina ho fatto un sogno stranissimo.
Ho sognato che ero a Bra, di sera, e dovevo andare in qualche viuzza minore a parlare col chitarrista dei Massimo Volume, e che facevo una fatica bestiale a trovarla e poi la trovavo, e non ero più a Bra, ero in un altro posto che non avevo mai visto e dovevo trovare parcheggio, e non lo trovavo. Poi parcheggiavo, evidentemente, perché un secondo dopo ero a piedi, ma non mi ricordavo più dove avevo parcheggiato. E allora mi mettevo a cercare la macchina, non la trovavo, giravo in tutto quel vicolo ed era pieno di macchine simili alla mia, ma parcheggiate ovunque, anche in dei posti un po' strani, come per esempio sulla striscia che divide le due carreggiate, anche se lì, in quel vicolo, era un po' improbabile ci fossero due carreggiate, anche perché era tutto lastricato col porfido, era stretto, era anche un po' improbabile che ci passasse una macchina, a dirla tutta, in quel vicolo, ma lasciamo perdere, dicevo, era pieno di macchine simili alla mia, ma un pelo differenti.
E poi a un certo punto avevo perso anche le scarpe, e giravo in questo vicolo, che io nel sogno dicevo fosse Milano, ma non era Milano, ed era pieno di scarpe, per strada,
anche di calzolai, di scarpe vecchie, nuove, di scarpe grandi, da muratore, di ciabatte, di scarpe da donna, coi tacchi, senza tacchi, di scarpe da lavoro, e mi ricordo benissimo un paio di scarpe enormi, che, nel sogno, correndo, mi ricordo che mi ero chiesto di chi potessero essere, quelle scarpe lì.
Ma andavo così veloce, e così deciso, di qua e di là, per il vicolo a cercar le mie scarpe, che da sveglio mi è venuto da pensare che io le scarpe ce le avessi ancora ai piedi, ma non sono sicuro.

lunedì 23 maggio 2011

Sul portone di casa

"Home, home again..."

Scrivere è come pisciare. Ha gli stessi tempi, gli stessi dolori, gli stessi sollievi. Nient’altro da dire. Esce sempre dal di-dentro, non è mai il di-fuori. E punge, ed è un bisogno. Lo si deve fare. E se non lo si fa, fa male. Ci si può giocare, con le attese. E col piacere della pisciata.

Vorrei tanto che mi raccontassi la tua storia. E poi raccontarti la mia.

"...i like to be here when i can"

Perché non ti ho mai raccontato la mia storia?

È pieno di coincidenze sulla dissoluzione, in questi giorni.

Scalini

Arrivo in biblioteca con dieci minuti d’anticipo. È già aperta. Entro, mi siedo, tiro fuori i libri, un foglio e inizio a scrivere. Mi sento al sicuro.
Mi sono messo nell’angolo più nascosto che ci sia, sul tavolino sotto le rampa di scale che porta al magazzino di sopra. Il muro davanti a me è ricoperto di scritte colorate, disegni, insulti, dichiarazioni d’amore e di amicizia eterna. Alzo lo sguardo e mi rendo conto che anche gli scalini, da sotto, sono scarabocchiati.
Mancano quattro giorni agli esami e sono nella merda. Penso che devo andare a Torino a stampare gli statini. Forse questo pomeriggio, mi dico.
È un periodo questo in cui quasi tutto mi scoraggia o mi spaventa. Anche il freddo. Il freddo mi mette a disagio. Passo sempre negli stessi posti, più o meno alle stesse ore. Alle sette e mezza mio padre mi lascia in macchina dietro la stazione; entro nel bar dall’altra parte della strada a fare la seconda colazione della giornata e rimango lì dentro fino alle nove meno un quarto. Leggo. Pago, esco e vengo qui in biblioteca. Provo a studiare. Ci riesco al massimo per un’ora, poi mi sale l’ansia e non riesco più a fare nulla.
Sto studiando geografia. Alle dieci vado a prendere un caffè alla macchinetta che c’è all’entrata. Poi torno sopra a fingo di studiare fino alle undici e mezza. A volte non faccio nemmeno finta: prendo un libro e inizio a leggere.
Ultimamente è un periodo che ho delle frasi ricorrenti in testa. Come: “Sognai di voler dormire. “
Ho sonno. È da due giorni che ho nostalgia del mio letto, al bar. A volte mi viene da piangere. Voglio tornare a casa a dormire. Ma non posso. Devo studiare. Ma non riesco.
A mezzogiorno la biblioteca chiude, allora torno al solito bar per mangiare pranzo. 9 euro, un piatto, acqua, caffè e dolce. Rimango seduto a un tavolino fino alle due. Poi torno in biblioteca. A quel punto della giornata non ho giù più alcuna voglia di studiare. Resisto fino alle tre e mezza, poi chiamo un amico e gli chiedo di uscire. Di solito ci vediamo. Stiamo in giro fino a notte fonda.
Ho attacchi d’ansia per gli esami. Vanno e vengono. Si alternano a momenti di rassegnazione, a momenti di menefreghismo, a momenti in cui non so nemmeno io cosa succede. È un periodo in cui ho paure e desideri incontrollabili.
Sono le nove e venti e in bilioteca non c’è nessuno. Mi dico che sarebbe meglio studiare. Ci provo. Sale l’ansia.
La gente mi cammina sulla testa, non ci avevo mai pensato.

mercoledì 11 maggio 2011

Per aria

Sono appena caduto dalle scale. È stato un secondo: un piede è scivolato, il resto l’ha seguito. Mezza scala. Schiena, gomito, fianchi, culo. Gli occhi spalancati. La mano aggrappata al corrimano.
Il tonfo.
Mi rialzo e vado in cucina a farmi un caffè. Riaffrontare le scale ancora doloranti è la cosa più difficile, penso. Penso con quale mano tenere la tazza e con quale aggrapparmi al corrimano. Penso se dare il peso al gomito o lasciarlo riposare. Si muove male, a fatica. Poi sulle scale mi viene in mente che il corrimano non lo uso mai e faccio le scale a passoni da gigante disegnato, alzando i piedi oltre il normale.
E mi viene in mente il finale di Grandi Ustionati di Paolo Nori: "Ma la cosa più brutta, di cadere giù per le scale, non è quando prendi la botta che ti fa male, la cosa più brutta è il momento che te sei per aria, le gambe in avanti, ti rendi conto che la botta, è questione di poco, sta per arrivare."

venerdì 16 aprile 2010

Rumore

Io c’ho dei ricordi che a volte mi tornano in mente, ciclicamente, come se dovessero dirmi qualcosa di più di quanto già mi dicono. Magari poi, quando tornano, li scrivo. Sono come un ritornello stonato nella mia vita. Il resto è rumore e melodie scontate.

Informazioni

Stamattina stavo cercando il CAAF per le tasse universitarie, ma non lo trovavo. Sono entrato in una farmacia e ho chiesto informazioni. Erano in quattro, e il negozio sarà stato di tre metri quadri. Sembravano quattro personaggi di uno spettacolo teatrale, tutti e quattro in fila, sorridenti, giovani, col loro camice bianco, soli, ad aspettare che entrasse un cliente per iniziare la loro parte. Io, però, li ho fermati subito: ho chiesto informazioni. Non era nel copione.
Uno di loro, il più grasso, mi ha dato le indicazioni e poi si è fermato un attimo e ha sorriso, io gli ho ricambiato, ho detto: "Ho capito.. ho capito. Grazie, ho capito."
Poi sono andato verso la porta e quello che mi aveva accolto mi ha salutato di nuovo: "Arrivederci, a presto!"
E, in quel momento, come mi capita spesso, mi sono scontrate nella lingua due idee, e invece di dire: "Salve!" o "Ciao!" Sono uscito dicendo:
"Sao!"

Un'altra volta

Io sono uno, ora che ci penso, che ha delle paure incondizionate ed angoscianti. Ma è troppo lungo parlarne. Un’altra volta.

Bene

Stamattina era come se avessi dell’aria fresca e appena dolce in petto. Una sensazione piacevolissima, rilassante. Era tempo che non stavo così bene. Poi questa sera L’ho rivisto sul treno.
E mi ha rovinato tutta la giornata.

Distrazione

Oggi, sarà la stanchezza di cui dicevo sopra, sono stato distratto tutto il giorno. Avere la testa da un’altra parte trovo sia una bella espressione, ma quando non si sa nemmeno dove sia, quella parte, trovo lo sia un po’ meno.
Per esempio, son sceso a Carmagnola oggi, tornando a casa, che c’era il cambio per Bra dopo poco, e quindi sono andato in sala d’attesa a vedere da quale binario partiva il treno, e poi, a uscire, la porta era bloccata. Ho provato a tirare, niente. A spingere, niente.
Che coglione, mi son detto, sono entrato dall’altra. Allora sono andato dall’altra porta, l’ho appena guardata, era una porta a vetro con un grosso maniglione a spinta rosso e nero, e ho detto: No, no, questa io non l’ho mai vista, e sono tornato dall’altra porta. Ho di nuovo spinto, ho di nuovo tirato e un signore lì seduto, che secondo me si gustava la scena già da un bel po’, mi ha chiamato: “Giovanotto! Giovanotto, si esce dall’altra porta, dall’altra porta.” Allora l’ho guardato un attimo in silenzio e ho detto: Che scemo che sono.
Sono andato dall’altra porta e si è aperta. Vedi che son proprio coglione oggi, mi son detto. Solo oggi?, ho poi aggiunto.
E poi, sempre sul treno, stavolta su quello che portava a Bra, eravamo arrivati a destinazione e tutti nel vagone si erano alzati, compreso me, ed eravamo andati dalla porta ad aspettare che si aprisse. C’era però un ragazzo, tutto raggomitolato nel suo maglione e appoggiato allo zaino messo sul sedile vicino al suo, che si era addormentato e non si era svegliato nemmeno quando il treno si era fermato, sbatacchiando e fischiando.
Forse è meglio che lo svegli, visto che gli altri non fanno nulla, mi son detto. Ci ho pensato su dieci secondi, poi le porte si sono aperte e mi son detto: Ma si, tanto siamo arrivati, ora si sveglia e scende.
Ecco, menomale che ho fatto questo ragionamento. Perché quel treno non si fermava mica a Bra. Andava ad Asti. Non era nemmeno a metà corsa, a Bra. Insomma, l’avrei solo svegliato per niente, facendomi anche una figuraccia terribile.
Io l’ho detto che in sti giorni sono stanco.

Fatica

Ultimamente son dei giorni che faccio una fatica, a fare le cose. Sono proprio stanco. Ma stanco per cosa? mi vien da chiedermi. Per niente, non ho fatto nulla di speciale, ma son sempre esausto. Sarà che dormo poco, di solito 4 o 5 ore a notte, ma stamattina, a fare quei dieci scalini per arrivare al secondo piano dell’università a seguire una lezione, ho fatto una fatica che non so cosa non mi abbia fermato, mi abbia fatto scendere quei tre scalini che avevo fatto, prendere un bus, tornare in stazione, andare a casa, mettermi sul divano, sotto una coperta, col portatile sulle gambe e non fare niente per tutta la giornata. Davvero non lo so. Sarà la “catena di montaggio”.

Io

Io sono uno che mi sento sempre a disagio, quando cammino per strada. Son sempre convinto che la gente mi osservi, mi fissi, stupita da qualcosa; da quanto sono brutto, mi dico io. E allora inizio a controllare se sono pettinato, se mi son macchiato, se ho qualcosa di strano. Ma non c’è mai niente, che io veda.
È vero che la gente mi osserva, forse, però, lo fa perché io la osservo per vedere se mi osserva, allora si sente osservata e mi osserva. O forse no.
A Narzole poi, io vivo a Narzole, cioè, non è vero, vivo in una frazione di Narzole che è lontana da quel paesino di merda qualche chilometro, ma comunque, a Narzole, ne son certo, mi guardano tutti. Ma lo fanno con tutti, i Narzolini. Si chiamano così. Narsulin ed merda, si dice, quasi come se fosse un proverbio. E la sua veridicità ce l’ha eccome. È proprio gente di merda.
Quando passo per quelle tre vie, che sia in macchina o a piedi, mi guardano tutti, e hanno uno sguardo strano: di rimprovero, credo.
Io ho provato a fare le medie a Narzole, ma proprio non mi piaceva, e così son stato male due settimane; poi i miei, esasperati, mi hanno trasferito a Bra, dove, fino a un anno prima, vivevamo.
Io, questo trasloco, non l’ho mai mandato giù del tutto. I primi tempi, poi. Non ci volevo proprio andare a Narzole; non volevo proprio cambiare casa, per niente al mondo. Ero piccolo. Stavo bene dov’ero. Ma i miei la casa l’hanno comprata, e quindi ci siamo trasferiti. Tutti i miei amici però erano a Bra; la mia vita fino a quel momento era là. Nonostante questo, però, mi hanno preso e mi hanno spostato, e, a me, non è mai andata giù.
Ricordo ancora il primo giorno di scuola del primo anno delle medie, a Narzole. Una paura. Son sempre stato pauroso io, lo sono ancora. Non volevo proprio andare, in quella scuola. Non conoscevo nessuno e, lo sapevo, gli altri non mi volevano, a rompere i coglioni. E infatti non mi han voluto. Mi hanno subito visto male e nessuno, dico nessuno, aveva la minima intenzione di spartire qualcosa con me. Nemmeno il banco.
È durata due settimane, quella tortura; poi sono tornato a Bra, almeno a scuola.
Da quel momento, da quando me ne sono andato, non ne ho nessuna prova, ma è come se tutto il paese se la fosse presa con me.
"Guarda, quello che ha cambiato scuola"
Non mi sono mai pentito della mia scelta, anzi, son quasi felice che mi guardino in quel modo, gente di merda.
Ma questa cosa degli sguardi non la vedo solo a Narzole, anzi. Anche oggi pomeriggio, a Torino, stavo camminando sotto i portici di Via Po e una signora piuttosto anziana ha rallentato un po’ il passo e ha iniziato a fissarmi. Si è perfino avvicinata. Aveva due occhi azzurri chiari che faceva male guardarli. Ho fatto finta di niente e sono andato avanti.