Notare delle piccole cose è la cosa che faccio di più, in questi giorni. Ci sarebbe anche da chiedersi il perché: il perché è semplice, non c’è manco da chiederselo: perché non sto facendo niente, in questi giorni. Allora stamattina, stamattina è stata una mattina strana, stamattina. Camminando sul binario due per salire sul treno, ho sentito: Il treno per, chi se lo ricorda per dove, è in arrivo sul binario buio. Ho detto No dai, ho sentito male. Poi però ho pensato, certo che ce ne vuole a capire buio al posto di uno, ce ne vuole veramente, non è che ha sbagliato l’annunciatore? Che quello lì, quello che annuncia i treni, come lo vuoi chiamare? Io non lo so come chiamarlo, lo chiamo annunciatore.
Poi comunque non ho notato nessun’altra piccola stranezza per tutta la mattina, mi son fatto il mio viaggio in treno dormendo, son arrivato a Torino, ho fatto le cose che dovevo fare, sono andato all’università; solo che, nel frattempo che facevo le mie cose, mi son messo ad ascoltare un po’ di musica dal lettore mp3 e, tornando dalla Fnac, praticamente ero quasi arrivato in stazione, mi è venuta voglia di ascoltarmi un disco per intero. Allora non sapevo cosa ascoltare, ho guardato un po’ quello che c’è sul lettore mp3, ho scelto Kollaps Tradixionales dei Silver Mt Zion.
Che poi sul nome dei Silver Mt Zion ci sarebbe da dire una cosa, cioè che cambiano nome a ogni disco, ma ogni volta di poco: tipo una volta si chiamano A Silver Mt Zion, un’altra A Silver Mt Zion Memorial Orchestra, un’altra si chiamano Thee Silver Mt Zion Memorial Orchestra and tra-la-la band, un’altra volta ancora Thee Silver Mt Zion Memorial Orchestra and tra-la-la band with choir. Ecco.
E m’è venuto in mente, mentre ascoltavo Kollaps Tradixionales camminando verso Porta Nuova, quando sono andato a vederli, i Silver Mt Zion, allo Spazio211: era primavera, ero con Marco e con Linda, due miei amici, ci eravamo incontrati in stazione di pomeriggio presto e mi ricordo che avevo dietro una borsetta di cartone, di quelle che danno nei negozi, piena di cose che mi ero portato dietro, che, se non sbaglio, erano: tutti i cd dei Silver Mt Zion che avevo, che, se non sbaglio anche qui, eran quattro, Yanqui UXO dei Godspeed You! Black Emperor, La vergogna delle scarpe nuove di Paolo Nori, una penna, e una specie di regalo che avevo per Efrim Menuck, che è il cantante e chitarrista dei Silver Mt Zion. E mi ricordo il viaggio in treno, di pomeriggio presto, c’era un sole chiarissimo, era stato stupendo. Mi ricordo dei viaggi bellissimi, io, in treno, con dei libri bellissimi e delle borse e dei pacchi bellissimi. E quasi sempre son di pomeriggio.
Ci eravamo incontrati, io, Marco e Linda, quel giorno in stazione, e ci eravamo fatti dalla stazione allo Spazio211 a piedi. Solo che avevamo anche allungato, non sapevamo la strada, allora eravamo andati fino in Via Po’, a Palazzo Nuovo, avevam trovato una mappa della città, avevam capito la strada c’avevam messo qualcosa come tre ore, ad arrivare allo Spazio211. E intanto eravamo passati per mezza Torino a piedi, eravamo passati in delle stradine che buttavano malissimo, ci eravamo persi, avevamo chiesto indicazioni, avevamo sbagliato, eravamo passati in un mercato rionale in un quartiere di, non vorrei sbagliarmi, marocchini, e sembrava di essere lontanissimi, dall’altra parte del mondo, sembrava che il senso di quella giornata fosse camminare con tranquillità per mezza Torino per arrivare allo Spazio211, non tanto andare a un concerto. E quel pomeriggio lì, a camminare, sembrava di essere lontanissimi.
Poi alla fine eravam solo a Torino, un po’ in periferia, alla fine eravamo anche arrivati in anticipo, allo Spazio211.
Avevamo aspettato tantissimo, fuori dal locale, nei giardini, si stava bene. Poi erano arrivati degli altri nostri amici eravamo andati a fare cena in un bar un po’ lontano, da dov’eravamo, avevamo mangiato qualcosa e quand’eravamo tornati fuori dallo Spazio c’era una coda enorme, era tutto pieno.
Mi ricordo l’attesa, seduti io e Marco sul palco, per stare davanti, con tutta la ressa attorno, poi alla fine eravam finiti in mezzo, non ricordo perché. Era stato un concerto fantastico.
E mentre che pensavo tutto questo, questa mattina mentre camminavo Porta Nuova ascoltando i Silver Mt Zion nell’mp3 e pensando a quel pomeriggio, al concerto, a Linda e Marco, a tutta la strada che avevamo fatto, a com’ero stato bene, mi è venuto da piangere.
Poi son arrivato a Porta Nuova, ho preso il treno, ho ascoltato due volte A Love Supreme dormendo e quando sono sceso dal treno e stavo per uscire dalla stazione ho sentito: Il treno proveniente da, chi se lo ricorda, e diretto a, chi se lo ricorda, è in arrivo al binario quadro.
Anche lì, pensavo: non è possibile.
Però, pensavo, io prenderei tantissimi treni da una stazione con un binario quadro e uno buio.
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martedì 24 gennaio 2012
giovedì 13 ottobre 2011
Iniziare una Moleskine
Non c’è nessuno su sto treno del mattino, a tornare a casa. Ma c’è una luce nel giallo delle tende, da piangere. E questa mattina c’era ancora la nebbia di ieri notte, ancora più densa e spessa, che stava sospesa sopra le rotonde e mi spaventava mentre guidavo. E a un certo punto, sempre ieri, mi è venuto in mente che ogni pensiero è una spina nel fianco di Cristo. E hai gli occhi persi, oltre il mio sguardo. e la tua testa è pesante. che ultimamente stanno passando anche gli scoglionamenti, ma mi sembra che tutto sia venuto via un po’ slavato. Altri Libertini di Tondelli fa scattare l’antifurto in Feltrinelli e non si capisce come mai. E mi ricordo che il primo giorno che ho ricominciato l’università, stavo tornando a casa, in treno, e a un certo punto ho guardato fuori dal finestrino e ho visto, così, in mezzo al verde, uno stendino, bianco, vuoto, ed era bellissimo.
È un periodo che non scrivo più e che ho ricominciato a leggere, a stare bene in casa; che ho smesso di lavorare e mi sono reso conto di quanto fosse brutto, e prematuro, in un certo senso. e vaffanculo a tutte le migliaia, davvero migliaia di persone che ho chiamato in questi, quanti sono?, uno, due, tre, quattro, quattro mesi e una settimana di lavoro. E ora ricomincerò anche a studiare e magari mi darò una mossa, e darò qualche esame e al più presto mi comprerò un basso o una chitarra acustica. e non vedo l’ora che arrivi l’inverno e la neve, con le felpe e le giacche lunghe e tutti gli sbrinamenti in casa, le serate gelide e i pomeriggi bianchi, interminabili. Che arrivi l’inverno con tutta la sua premura, che sento che le cose stanno cambiando, anzi sono già cambiate e questa volta non sarà come un anno fa. Ci sarà più gente e meno solitudine, meno depressione. Rimarranno sempre il sonno e l’insonnia, le levatacce e i respiri pesanti, e i ritorni in treno da solo; rimarranno le stazioni e le canzoni, gli innamoramenti. E forse ci sarà qualche amico con cui chiudersi in casa la notte della vigilia. E magari riuscirò a smettere di magonare. Ma forse no. In fondo... vediamo com’è essere innamorati d’inverno.
È un periodo che non scrivo più e che ho ricominciato a leggere, a stare bene in casa; che ho smesso di lavorare e mi sono reso conto di quanto fosse brutto, e prematuro, in un certo senso. e vaffanculo a tutte le migliaia, davvero migliaia di persone che ho chiamato in questi, quanti sono?, uno, due, tre, quattro, quattro mesi e una settimana di lavoro. E ora ricomincerò anche a studiare e magari mi darò una mossa, e darò qualche esame e al più presto mi comprerò un basso o una chitarra acustica. e non vedo l’ora che arrivi l’inverno e la neve, con le felpe e le giacche lunghe e tutti gli sbrinamenti in casa, le serate gelide e i pomeriggi bianchi, interminabili. Che arrivi l’inverno con tutta la sua premura, che sento che le cose stanno cambiando, anzi sono già cambiate e questa volta non sarà come un anno fa. Ci sarà più gente e meno solitudine, meno depressione. Rimarranno sempre il sonno e l’insonnia, le levatacce e i respiri pesanti, e i ritorni in treno da solo; rimarranno le stazioni e le canzoni, gli innamoramenti. E forse ci sarà qualche amico con cui chiudersi in casa la notte della vigilia. E magari riuscirò a smettere di magonare. Ma forse no. In fondo... vediamo com’è essere innamorati d’inverno.
mercoledì 21 settembre 2011
Un inizio
Entra, striscia via. Solito ragazzo maniche lunghe felpa grigia freddo addosso. Lo guardo muoversi fra gli scaffali, apricchiando qualche libro, cercando alla veloce qualche autore, guardandosi intorno. È tornato l’inverno e finalmente mi sento di nuovo al caldo. E ieri sera ho capito che i primi due dischi dei Liars saranno i miei dischi dell’inverno. This dust makes that mud. Trenta minuti buoni: sempre la stesse tre note in croce ripetute all’infinito. Scalderà.
Prende un libro in mano, inizia a leggere. I, I, I, I. Want to be a horse. In questi giorni mi torna sempre in mente Agota Kristof e quella meraviglia di durezza che è La trilogia della città di K. We are the army you see through the red haze of blood. Sembra inquieto. Esce.
Prende un libro in mano, inizia a leggere. I, I, I, I. Want to be a horse. In questi giorni mi torna sempre in mente Agota Kristof e quella meraviglia di durezza che è La trilogia della città di K. We are the army you see through the red haze of blood. Sembra inquieto. Esce.
venerdì 15 luglio 2011
Improvviso per nuova macchina da scrivere
Niente panico, mi raccomando, niente panico, come mantenere la salvezza senza compromettersi gli dei migliori, e tornare a casa sani e salvi da serate che sono come il pane appena sfornato, ricoprirsi di amuleti e salire in macchina, da soli, col sale sotto gli occhi e i dischi giusti per muovere il paesaggio, che è come una tendina in un film, si muove solo se ha un senso, che se piangevi era per la congiuntivite e tu non avevi proprio nulla da spartire con noi, proprio nulla, poi però, come sempre, come sempre, i ritardi e le attese, le fermate dei treni mattinieri, con la luce che risale dai binari e tira dritta verso il cielo, senza perder tempo, che tanto non ti guarda, non ti guarda nessuno, non preoccuparti, ricomincia a parlare piano, che ti sentiranno meglio da lontano e avranno poster e stelle d’oro, luci filanti e prezzi da pagare, come una storia da raccontare a dei nessuno immaginabili, e presto anche le carpe torneranno scarpe e tutto quanto si riaccenderà mogio, a tratti di miele e di tempesta, una catenella dentro la testa, ti strapperà i pensieri corti da quelli fradici e staremo tutti seduti su dei marciapiedi ad aspettare di marcire insieme in allegria, come del vino da tristezza
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sabato 4 giugno 2011
Einsturzende Neubauten - Appunti
tempi d'e/oro
Inizia tutto male. Il treno per Carmagnola delle 18 30 ha 40 minuti di ritardo, bisogna prendere quello per Cavallermaggiore e aspettare. A Cavallermaggiore due vecchi parlano da un binario all’altro. All’inizio mi sembra che parlino in piemontese, poi capisco che non è piemontese, è un’altra lingua. Sembra una scena teatrale. Uno era già lì seduto sulla sua panchina, sul binario uno, chissà da quanto, e l’altro arriva con un treno, che poi è quello su cui ero anche io, si siede per aspettarne un altro, e solo dopo un po’ si accorge del suo conoscente dall’altra parte. Il bello è che tutto questo lo sto scrivendo in presa diretta, mentre accade: i due stanno ancora parlando. Attenzione, treno in transito sul binario tre, allontanarsi dalla linea gialla. I due uomini si fermano ancora prima che arrivi il treno. Una volta passato non parlano più.
Bisogna cogliere la fine quando arriva, con prontezza. Sapere chiudere una storia, sapere chiudere un racconto, un rapporto, un discorso. Perché le fini sono tante e non ci danno pace. Bisogna avere la penna pronta per scrivere l’ultima frase e chiudere tutto in un cassetto. Bisogna essere pronti. E avere gusto. Le cose hanno una loro fine, se si appiccica loro addosso un’altra fine, una fine tarda, una fine prematura, una fine altra, le cose perdono equilibrio, cadono, non stanno più in piedi. È così bello sentire la fine che arriva, l’attimo in cui arriva, e godersela, in tutta la sua meraviglia.
Inizia tutto male. Il treno per Carmagnola delle 18 30 ha 40 minuti di ritardo, bisogna prendere quello per Cavallermaggiore e aspettare. A Cavallermaggiore due vecchi parlano da un binario all’altro. All’inizio mi sembra che parlino in piemontese, poi capisco che non è piemontese, è un’altra lingua. Sembra una scena teatrale. Uno era già lì seduto sulla sua panchina, sul binario uno, chissà da quanto, e l’altro arriva con un treno, che poi è quello su cui ero anche io, si siede per aspettarne un altro, e solo dopo un po’ si accorge del suo conoscente dall’altra parte. Il bello è che tutto questo lo sto scrivendo in presa diretta, mentre accade: i due stanno ancora parlando. Attenzione, treno in transito sul binario tre, allontanarsi dalla linea gialla. I due uomini si fermano ancora prima che arrivi il treno. Una volta passato non parlano più.
Bisogna cogliere la fine quando arriva, con prontezza. Sapere chiudere una storia, sapere chiudere un racconto, un rapporto, un discorso. Perché le fini sono tante e non ci danno pace. Bisogna avere la penna pronta per scrivere l’ultima frase e chiudere tutto in un cassetto. Bisogna essere pronti. E avere gusto. Le cose hanno una loro fine, se si appiccica loro addosso un’altra fine, una fine tarda, una fine prematura, una fine altra, le cose perdono equilibrio, cadono, non stanno più in piedi. È così bello sentire la fine che arriva, l’attimo in cui arriva, e godersela, in tutta la sua meraviglia.
domenica 3 aprile 2011
In viaggio (dalle sei a mezzogiorno)
I miei viaggi disimpegnati, i miei tempi morti. Le tratte per Milano, Padova, Bolzano. coi cieli scarichi, i paesaggi neri e gli scioperi delle città e dei ferrovieri. Le mie duecento insicurezze e i dubbi che squartano i finestrini. I libri da leggere, i libri già letti, le cuffiette rotte. gli arrivi a Milano, sani e salvi, in gloria, con la luce da sopra e da tutti gli angoli. le solitudini. le attese confinate e le ore stiracchiate. come quella volta che era morto tuo padre e il giorno dopo siamo andati lo stesso a vedere i Godspeed You! Black Emperor e ti ho letto Daniil Charms camminando per Milano. e tornando a casa eri asciutto e incredulo. I campi colorati con un gessetto azzurro su un sacco di tela stremato. le luci da presepe. E le fermate.
Il sole è un tuorlo d’uovo sigillato nel torbido di un barattolo d’alcool. all’alba. I paesaggi che ci si potrebbe fare un film. come quella volta in Irlanda, con i Radiohead, sul pullman. quando il centro di Dublino è diventato un video.
E non ne posso più dei centri commerciali, delle canzoni commerciali, delle canzoni di merda. del sangue che cola. A Torino c’è un sole come se sapesse che sono qui sono per svago. per passare il tempo prima di partire. La vita di Bob Dylan e i libri di Perec che ho lasciato alla Feltrinelli per non caricarmi troppo lo zaino. Le grandi aspettative. Le cuffiette nuove e la stessa musica sull’ipod ormai da un anno.
Le mie pagine dove non c’è mai nessuno.
Il sole è un tuorlo d’uovo sigillato nel torbido di un barattolo d’alcool. all’alba. I paesaggi che ci si potrebbe fare un film. come quella volta in Irlanda, con i Radiohead, sul pullman. quando il centro di Dublino è diventato un video.
E non ne posso più dei centri commerciali, delle canzoni commerciali, delle canzoni di merda. del sangue che cola. A Torino c’è un sole come se sapesse che sono qui sono per svago. per passare il tempo prima di partire. La vita di Bob Dylan e i libri di Perec che ho lasciato alla Feltrinelli per non caricarmi troppo lo zaino. Le grandi aspettative. Le cuffiette nuove e la stessa musica sull’ipod ormai da un anno.
Le mie pagine dove non c’è mai nessuno.
sabato 27 novembre 2010
Cose da fare
è stato bello pensare, stasera, di aver qualcosa da fare al computer. Era come se il mio stare al computer acquisisse un senso, che di solito quando sono al computer non è che faccia delle gran cose, però ci sto tanto, quindi magari uno da fuori potrebbe anche pensare: perdita di tempo, invece perdita di tempo un cazzo, e poi vogliam parlare della vostra televisione? Ecco, allora, per favore, su, camminare, che non voglio sentire sti discorsi.
E quindi ero di sotto, in salotto, e stavo venendo di sopra, qui, al computer, e pensavo: che bello, devo fare delle cose al computer. E questo dover fare delle cose, quest’occupazione ma senza preoccupazioni, mi piaceva e mi piace tutt’ora. Che poi le cose che avevo da fare non è che fossero chissà cosa: fare la lista di Natale per mia nonna e scrivere un compito per il lettorato di inglese, centocinquanta parole sulla televisione italiana, una cosa un po’ culturale, non tanto l’esperienza vostra, aveva detto la lettrice. Va bene, facciamo così. Ci ha dato due settimane per farlo, oggi è venerdì, la prossima lezione è martedì, se glielo mando oggi (vuole che glieli mandiamo via mail, i compiti) gliel’avrò mandato ancora prima della prossima lezione, pensavo mentre salivo le scale , e già mi immaginavo la scena: ragazzi, ho visto che nessuno mi ha mandato la composition, tranne uno, un certo Dellapiana. Sì, sono io. Ecco, l’ho letta e va bene, falle pure così. Va bene. E poi quel momento di silenzio che significa: vedete lui? Fate come lui, invece di non fare niente tutto il giorno per due settimane e poi mandarmi la composition il prossimo lunedì sera.
E, mentre che pensavo tutte queste cose, ero già arrivato di sopra avevo acceso il computer.
Avevo acceso il computer e mentre avevo pensato: quasi quasi faccio prima la composition, guarda , che bravo, prima il dovere poi il piacere, che poi, piacere, mica tanto, è sempre una rottura di balle fare sta lista, di solito son sempre lì a farla a mano, sul treno, a pensare ai dischi che voglio senza averli davanti, prima di arrivare a casa di mia nonna e dargliela, che lei tutte le volte la apre, fa finta di leggerla, poi dice che l’ho scritta male, che non ci capisce niente, e io ogni anno mi chiedo perché non l’ho scritta al computer e infatti quest’anno la scrivo al computer, pensavo, poi non è andata proprio così.
È andata che poi sono arrivato di sopra, ho acceso il computer, mi sono seduto e mi son messo a scrivere una specie di poesia che, mentre mangiavo cena, mi era venuta su naturalmente, e mi erano venuti su i primi due o tre versi, che fanno così:
La parola CARNE
Ha, dentro di sé,
un dente.
E quei versi m’erano venuti quando avevo morso un tortellino in brodo, e avevo sentito la carne, e mi era venuta quest’immagine di un dente nella carne, e poi le poesie, se così vogliamo chiamarle, sono un po’ strane da spiegare, e alla fine ti sembran sempre delle cagate. Anche sta qui, il tortellino. Quindi meglio non spiegarle. Meglio dire che mi è venuta così, di colpo, mentre vagavo nel nulla e nella disperazione più totale, abbruttito dai mali della vita e dal nichilismo assoluto che mi pervade l’anima fin dalla nascita. Meglio dire che mi son messo lì a scrivere i primi tre versi e poi tutto il resto è venuto da sé, in cinque minuti, senza correggere niente, e questa poesia, se così la vogliamo chiamare, si chiama La parola CARNE e fa così:
La parola CARNE
Ha, dentro di sé,
un dente.
Un incisivo
Ficcato nel cuore di ogni carne.
Ogni dente è il germoglio di una carie,
ogni carie fiorisce nella carne.
Carie della carne,
carie della carne.
Pezzi
di bovini macellati:
ogni taglio un dente,
un incisivo
insito
nel centro della carne.
La carne vuole carne,
carne vuole carie, carie.
I fiori della carie,
carichi di petali
gonfi d’acqua
sgravanti,
spioventi
sulla pietra umida
e ruvida,
umida e ruvida.
La CARNE,
ricopre
i fiori
in bozzoli
di tumori
mai nati.
La CARNE,
espelle,
risucchia,
gonfia,
putrefazione di sé stessa.
-
I
colori
dell’arcobaleno
nei riflessi di carne
vecchia
quasi andata a male.
Sotto le luci delle vetrine,
la carne fosforescente,
i filetti, magri
e nudi
sono rosa
come un chewingum.
Pezzi d’America,
un tempo viventi.
Ecco, dopo che l’avevo scritta, ero talmente contento che mi son dimenticato delle cose che dovevo fare, perché era tanto che non scrivevo e ancor di più che non scrivevo una poesia, se così la vogliamo chiamare.
Allora ho fatto un giro su internet, suppongo, non ricordo bene, ma ricordo di essermi ricordato delle cose che avevo da fare solo un’oretta dopo, e mi son detto: Adesso le faccio. Però che palle la lista di Natale, quella magari la faccio domani, che tanto è il 26 novembre, che fretta c’è?
Poi dopo un po’ mi son ricordato della composition di centocinquanta parole sulla televisione italiana, un po’ culturale, non tanto sulla vostra esperienza personale, e anche lì, due balle. Magari domani. Non facciamo gli sboroni, che poi se son davvero l’unico ad averla mandata, ma che figura ci faccio?
E quindi non ho fatto niente di quello che dovevo fare, ho scritto una poesia, se così la vogliamo chiamare. Per oggi io dico che va bene.
E quindi ero di sotto, in salotto, e stavo venendo di sopra, qui, al computer, e pensavo: che bello, devo fare delle cose al computer. E questo dover fare delle cose, quest’occupazione ma senza preoccupazioni, mi piaceva e mi piace tutt’ora. Che poi le cose che avevo da fare non è che fossero chissà cosa: fare la lista di Natale per mia nonna e scrivere un compito per il lettorato di inglese, centocinquanta parole sulla televisione italiana, una cosa un po’ culturale, non tanto l’esperienza vostra, aveva detto la lettrice. Va bene, facciamo così. Ci ha dato due settimane per farlo, oggi è venerdì, la prossima lezione è martedì, se glielo mando oggi (vuole che glieli mandiamo via mail, i compiti) gliel’avrò mandato ancora prima della prossima lezione, pensavo mentre salivo le scale , e già mi immaginavo la scena: ragazzi, ho visto che nessuno mi ha mandato la composition, tranne uno, un certo Dellapiana. Sì, sono io. Ecco, l’ho letta e va bene, falle pure così. Va bene. E poi quel momento di silenzio che significa: vedete lui? Fate come lui, invece di non fare niente tutto il giorno per due settimane e poi mandarmi la composition il prossimo lunedì sera.
E, mentre che pensavo tutte queste cose, ero già arrivato di sopra avevo acceso il computer.
Avevo acceso il computer e mentre avevo pensato: quasi quasi faccio prima la composition, guarda , che bravo, prima il dovere poi il piacere, che poi, piacere, mica tanto, è sempre una rottura di balle fare sta lista, di solito son sempre lì a farla a mano, sul treno, a pensare ai dischi che voglio senza averli davanti, prima di arrivare a casa di mia nonna e dargliela, che lei tutte le volte la apre, fa finta di leggerla, poi dice che l’ho scritta male, che non ci capisce niente, e io ogni anno mi chiedo perché non l’ho scritta al computer e infatti quest’anno la scrivo al computer, pensavo, poi non è andata proprio così.
È andata che poi sono arrivato di sopra, ho acceso il computer, mi sono seduto e mi son messo a scrivere una specie di poesia che, mentre mangiavo cena, mi era venuta su naturalmente, e mi erano venuti su i primi due o tre versi, che fanno così:
La parola CARNE
Ha, dentro di sé,
un dente.
E quei versi m’erano venuti quando avevo morso un tortellino in brodo, e avevo sentito la carne, e mi era venuta quest’immagine di un dente nella carne, e poi le poesie, se così vogliamo chiamarle, sono un po’ strane da spiegare, e alla fine ti sembran sempre delle cagate. Anche sta qui, il tortellino. Quindi meglio non spiegarle. Meglio dire che mi è venuta così, di colpo, mentre vagavo nel nulla e nella disperazione più totale, abbruttito dai mali della vita e dal nichilismo assoluto che mi pervade l’anima fin dalla nascita. Meglio dire che mi son messo lì a scrivere i primi tre versi e poi tutto il resto è venuto da sé, in cinque minuti, senza correggere niente, e questa poesia, se così la vogliamo chiamare, si chiama La parola CARNE e fa così:
La parola CARNE
Ha, dentro di sé,
un dente.
Un incisivo
Ficcato nel cuore di ogni carne.
Ogni dente è il germoglio di una carie,
ogni carie fiorisce nella carne.
Carie della carne,
carie della carne.
Pezzi
di bovini macellati:
ogni taglio un dente,
un incisivo
insito
nel centro della carne.
La carne vuole carne,
carne vuole carie, carie.
I fiori della carie,
carichi di petali
gonfi d’acqua
sgravanti,
spioventi
sulla pietra umida
e ruvida,
umida e ruvida.
La CARNE,
ricopre
i fiori
in bozzoli
di tumori
mai nati.
La CARNE,
espelle,
risucchia,
gonfia,
putrefazione di sé stessa.
-
I
colori
dell’arcobaleno
nei riflessi di carne
vecchia
quasi andata a male.
Sotto le luci delle vetrine,
la carne fosforescente,
i filetti, magri
e nudi
sono rosa
come un chewingum.
Pezzi d’America,
un tempo viventi.
Ecco, dopo che l’avevo scritta, ero talmente contento che mi son dimenticato delle cose che dovevo fare, perché era tanto che non scrivevo e ancor di più che non scrivevo una poesia, se così la vogliamo chiamare.
Allora ho fatto un giro su internet, suppongo, non ricordo bene, ma ricordo di essermi ricordato delle cose che avevo da fare solo un’oretta dopo, e mi son detto: Adesso le faccio. Però che palle la lista di Natale, quella magari la faccio domani, che tanto è il 26 novembre, che fretta c’è?
Poi dopo un po’ mi son ricordato della composition di centocinquanta parole sulla televisione italiana, un po’ culturale, non tanto sulla vostra esperienza personale, e anche lì, due balle. Magari domani. Non facciamo gli sboroni, che poi se son davvero l’unico ad averla mandata, ma che figura ci faccio?
E quindi non ho fatto niente di quello che dovevo fare, ho scritto una poesia, se così la vogliamo chiamare. Per oggi io dico che va bene.
lunedì 17 maggio 2010
Direzioni Diverse
Seduto sul mio sedile vicino alla porta di scompartimento aperta, ieri, a Porta Nuova, ho sentito una di quelle pubblicità che passano in stazione, ogni due minuti, da mattina a sera. Diceva: "Da quest'anno... la morte... ha una nuova direzione.." E poi un urlo disumano. Un film horror.
Ecco, a parte l'urlo disumano che possiamo anche metterlo da parte, ma mi chiedo: direzione in che senso? Nel senso che ora la morte, da quest'anno, passa da altre parti, per altre vie e fa altri percorsi? O che ora, da quest'anno, la morte la dirige qualcun'altro, magari un gruppo, un'azienda, un'associazione? Bisogna saperlo, cosa significa.
Che magari uno è lì che vuole suicidarsi e la morte gli passa a mezzo metro dalla faccia. è mica carino, da parte sua, della morte, dico. Oppure uno che cammina tranquillo per strada, senza voler suicidarsi, muore perché la morte ha cambiato direzione. è mica carino anche questo, sapete?
E se invece la direzione è chi la comanda, magari c'è qualcuno che sa chi è, questo qualcuno. Bisogna che lo dica.
Non va mica bene esser così confusi, poi certo che uno fa gli urli disumani.
Ecco, a parte l'urlo disumano che possiamo anche metterlo da parte, ma mi chiedo: direzione in che senso? Nel senso che ora la morte, da quest'anno, passa da altre parti, per altre vie e fa altri percorsi? O che ora, da quest'anno, la morte la dirige qualcun'altro, magari un gruppo, un'azienda, un'associazione? Bisogna saperlo, cosa significa.
Che magari uno è lì che vuole suicidarsi e la morte gli passa a mezzo metro dalla faccia. è mica carino, da parte sua, della morte, dico. Oppure uno che cammina tranquillo per strada, senza voler suicidarsi, muore perché la morte ha cambiato direzione. è mica carino anche questo, sapete?
E se invece la direzione è chi la comanda, magari c'è qualcuno che sa chi è, questo qualcuno. Bisogna che lo dica.
Non va mica bene esser così confusi, poi certo che uno fa gli urli disumani.
venerdì 14 maggio 2010
Buio (1)
E poi, d'improvviso, stamattina, siamo entrati in galleria ed è calato il buio. Non c'erano luci accese sul treno. Era stranissimo sentire il treno che correva verso Porta Susa e vedere, con difficoltà, le ombre e le sagome degli altri passeggeri accendersi e spegnersi di bianco per pochi attimi e poi scomparire del tutto, tutte insieme. Sembravamo una comitiva di ritorno in treno da una vacanza lunghissima, di notte, tutti addormentati; veniva quasi da parlar piano. E infatti è sceso il silenzio. Sembravamo dei deportati ad Auschwitz col fucile e gli occhiali, dei turisti festanti verso il macello. E poi è arrivata Porta Susa. Monumentale nella sua sporcizia di luce. E in un attimo siamo tornati solo dei pendolari, alle 8 e mezza di mattino, diretti, e arrivati, a Torino.
venerdì 16 aprile 2010
Porta Pazienza
C’è una fermata, nel tragitto che faccio ogni giorno in treno per andare all’università, che i pendolari chiamano “Porta Pazienza”, perché il treno si ferma esattamente a 500 metri (magari un po’ di più) da Porta Nuova, nel nulla cosmico che circonda i binari vivi e morti che ormai si stanno innestando nella stazione. Si sta lì cinque minuti buoni, con la stazione davanti, ad aspettare che passi un treno e che lasci libero il binario. D’estate, d’inverno, sempre. Qualche giorno fa, che dovevo andare a vedere Le Luci Della Centrale Elettrica a Torino, il treno si è fermato senza motivo per un quarto d’ora al Lingotto, così, tanto per farmi incazzare un poco e poi, come se non bastasse, ha fatto la solita fermata nel nulla a Porta Pazienza. Marco mi ha mandato un messaggio, dato che ero già in ritardo di venticinque minuti, scrivendomi: “Dove sei?” e io gli ho risposto: “A cinquecento metri da te, se solo il treno muovesse il culo.”
Mah
Sempre in treno, oggi, son passato davanti a un capannone pieno d’attrezzi e ho pensato: "Questa è la fabbrica dove costruiscono i nostri sogni e demoliscono i nostri specchi"
Pastiglie
Pensavo oggi in treno, mentre viaggiavo per Torino, che le cose belle, come pure quelle brutte, i dolori, si dovrebbe tenerle poco in bocca. Che poi uno, se le tiene troppo in bocca, le cose belle o i dolori, si perdono un po’, si sciolgono, come delle pastiglie. Che sì, ti rimane il gusto per un po’, però poi va via pure quello, che magari uno ci beve su. Quindi delle cose belle o dei dolori, io, tendenzialmente, non ne parlo, me le tengo per me, che io so, forse, cosa voglio dire; ma se lo dico a qualcuno, a chiunque, si perdono, si sciolgono. Come le pastiglie.
Distrazione
Oggi, sarà la stanchezza di cui dicevo sopra, sono stato distratto tutto il giorno. Avere la testa da un’altra parte trovo sia una bella espressione, ma quando non si sa nemmeno dove sia, quella parte, trovo lo sia un po’ meno.
Per esempio, son sceso a Carmagnola oggi, tornando a casa, che c’era il cambio per Bra dopo poco, e quindi sono andato in sala d’attesa a vedere da quale binario partiva il treno, e poi, a uscire, la porta era bloccata. Ho provato a tirare, niente. A spingere, niente.
Che coglione, mi son detto, sono entrato dall’altra. Allora sono andato dall’altra porta, l’ho appena guardata, era una porta a vetro con un grosso maniglione a spinta rosso e nero, e ho detto: No, no, questa io non l’ho mai vista, e sono tornato dall’altra porta. Ho di nuovo spinto, ho di nuovo tirato e un signore lì seduto, che secondo me si gustava la scena già da un bel po’, mi ha chiamato: “Giovanotto! Giovanotto, si esce dall’altra porta, dall’altra porta.” Allora l’ho guardato un attimo in silenzio e ho detto: Che scemo che sono.
Sono andato dall’altra porta e si è aperta. Vedi che son proprio coglione oggi, mi son detto. Solo oggi?, ho poi aggiunto.
E poi, sempre sul treno, stavolta su quello che portava a Bra, eravamo arrivati a destinazione e tutti nel vagone si erano alzati, compreso me, ed eravamo andati dalla porta ad aspettare che si aprisse. C’era però un ragazzo, tutto raggomitolato nel suo maglione e appoggiato allo zaino messo sul sedile vicino al suo, che si era addormentato e non si era svegliato nemmeno quando il treno si era fermato, sbatacchiando e fischiando.
Forse è meglio che lo svegli, visto che gli altri non fanno nulla, mi son detto. Ci ho pensato su dieci secondi, poi le porte si sono aperte e mi son detto: Ma si, tanto siamo arrivati, ora si sveglia e scende.
Ecco, menomale che ho fatto questo ragionamento. Perché quel treno non si fermava mica a Bra. Andava ad Asti. Non era nemmeno a metà corsa, a Bra. Insomma, l’avrei solo svegliato per niente, facendomi anche una figuraccia terribile.
Io l’ho detto che in sti giorni sono stanco.
Per esempio, son sceso a Carmagnola oggi, tornando a casa, che c’era il cambio per Bra dopo poco, e quindi sono andato in sala d’attesa a vedere da quale binario partiva il treno, e poi, a uscire, la porta era bloccata. Ho provato a tirare, niente. A spingere, niente.
Che coglione, mi son detto, sono entrato dall’altra. Allora sono andato dall’altra porta, l’ho appena guardata, era una porta a vetro con un grosso maniglione a spinta rosso e nero, e ho detto: No, no, questa io non l’ho mai vista, e sono tornato dall’altra porta. Ho di nuovo spinto, ho di nuovo tirato e un signore lì seduto, che secondo me si gustava la scena già da un bel po’, mi ha chiamato: “Giovanotto! Giovanotto, si esce dall’altra porta, dall’altra porta.” Allora l’ho guardato un attimo in silenzio e ho detto: Che scemo che sono.
Sono andato dall’altra porta e si è aperta. Vedi che son proprio coglione oggi, mi son detto. Solo oggi?, ho poi aggiunto.
E poi, sempre sul treno, stavolta su quello che portava a Bra, eravamo arrivati a destinazione e tutti nel vagone si erano alzati, compreso me, ed eravamo andati dalla porta ad aspettare che si aprisse. C’era però un ragazzo, tutto raggomitolato nel suo maglione e appoggiato allo zaino messo sul sedile vicino al suo, che si era addormentato e non si era svegliato nemmeno quando il treno si era fermato, sbatacchiando e fischiando.
Forse è meglio che lo svegli, visto che gli altri non fanno nulla, mi son detto. Ci ho pensato su dieci secondi, poi le porte si sono aperte e mi son detto: Ma si, tanto siamo arrivati, ora si sveglia e scende.
Ecco, menomale che ho fatto questo ragionamento. Perché quel treno non si fermava mica a Bra. Andava ad Asti. Non era nemmeno a metà corsa, a Bra. Insomma, l’avrei solo svegliato per niente, facendomi anche una figuraccia terribile.
Io l’ho detto che in sti giorni sono stanco.
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