lunedì 23 maggio 2011

Sul portone di casa

"Home, home again..."

Scrivere è come pisciare. Ha gli stessi tempi, gli stessi dolori, gli stessi sollievi. Nient’altro da dire. Esce sempre dal di-dentro, non è mai il di-fuori. E punge, ed è un bisogno. Lo si deve fare. E se non lo si fa, fa male. Ci si può giocare, con le attese. E col piacere della pisciata.

Vorrei tanto che mi raccontassi la tua storia. E poi raccontarti la mia.

"...i like to be here when i can"

Perché non ti ho mai raccontato la mia storia?

È pieno di coincidenze sulla dissoluzione, in questi giorni.

Scalini

Arrivo in biblioteca con dieci minuti d’anticipo. È già aperta. Entro, mi siedo, tiro fuori i libri, un foglio e inizio a scrivere. Mi sento al sicuro.
Mi sono messo nell’angolo più nascosto che ci sia, sul tavolino sotto le rampa di scale che porta al magazzino di sopra. Il muro davanti a me è ricoperto di scritte colorate, disegni, insulti, dichiarazioni d’amore e di amicizia eterna. Alzo lo sguardo e mi rendo conto che anche gli scalini, da sotto, sono scarabocchiati.
Mancano quattro giorni agli esami e sono nella merda. Penso che devo andare a Torino a stampare gli statini. Forse questo pomeriggio, mi dico.
È un periodo questo in cui quasi tutto mi scoraggia o mi spaventa. Anche il freddo. Il freddo mi mette a disagio. Passo sempre negli stessi posti, più o meno alle stesse ore. Alle sette e mezza mio padre mi lascia in macchina dietro la stazione; entro nel bar dall’altra parte della strada a fare la seconda colazione della giornata e rimango lì dentro fino alle nove meno un quarto. Leggo. Pago, esco e vengo qui in biblioteca. Provo a studiare. Ci riesco al massimo per un’ora, poi mi sale l’ansia e non riesco più a fare nulla.
Sto studiando geografia. Alle dieci vado a prendere un caffè alla macchinetta che c’è all’entrata. Poi torno sopra a fingo di studiare fino alle undici e mezza. A volte non faccio nemmeno finta: prendo un libro e inizio a leggere.
Ultimamente è un periodo che ho delle frasi ricorrenti in testa. Come: “Sognai di voler dormire. “
Ho sonno. È da due giorni che ho nostalgia del mio letto, al bar. A volte mi viene da piangere. Voglio tornare a casa a dormire. Ma non posso. Devo studiare. Ma non riesco.
A mezzogiorno la biblioteca chiude, allora torno al solito bar per mangiare pranzo. 9 euro, un piatto, acqua, caffè e dolce. Rimango seduto a un tavolino fino alle due. Poi torno in biblioteca. A quel punto della giornata non ho giù più alcuna voglia di studiare. Resisto fino alle tre e mezza, poi chiamo un amico e gli chiedo di uscire. Di solito ci vediamo. Stiamo in giro fino a notte fonda.
Ho attacchi d’ansia per gli esami. Vanno e vengono. Si alternano a momenti di rassegnazione, a momenti di menefreghismo, a momenti in cui non so nemmeno io cosa succede. È un periodo in cui ho paure e desideri incontrollabili.
Sono le nove e venti e in bilioteca non c’è nessuno. Mi dico che sarebbe meglio studiare. Ci provo. Sale l’ansia.
La gente mi cammina sulla testa, non ci avevo mai pensato.

mercoledì 11 maggio 2011

Per aria

Sono appena caduto dalle scale. È stato un secondo: un piede è scivolato, il resto l’ha seguito. Mezza scala. Schiena, gomito, fianchi, culo. Gli occhi spalancati. La mano aggrappata al corrimano.
Il tonfo.
Mi rialzo e vado in cucina a farmi un caffè. Riaffrontare le scale ancora doloranti è la cosa più difficile, penso. Penso con quale mano tenere la tazza e con quale aggrapparmi al corrimano. Penso se dare il peso al gomito o lasciarlo riposare. Si muove male, a fatica. Poi sulle scale mi viene in mente che il corrimano non lo uso mai e faccio le scale a passoni da gigante disegnato, alzando i piedi oltre il normale.
E mi viene in mente il finale di Grandi Ustionati di Paolo Nori: "Ma la cosa più brutta, di cadere giù per le scale, non è quando prendi la botta che ti fa male, la cosa più brutta è il momento che te sei per aria, le gambe in avanti, ti rendi conto che la botta, è questione di poco, sta per arrivare."

domenica 3 aprile 2011

In viaggio (dalle sei a mezzogiorno)

I miei viaggi disimpegnati, i miei tempi morti. Le tratte per Milano, Padova, Bolzano. coi cieli scarichi, i paesaggi neri e gli scioperi delle città e dei ferrovieri. Le mie duecento insicurezze e i dubbi che squartano i finestrini. I libri da leggere, i libri già letti, le cuffiette rotte. gli arrivi a Milano, sani e salvi, in gloria, con la luce da sopra e da tutti gli angoli. le solitudini. le attese confinate e le ore stiracchiate. come quella volta che era morto tuo padre e il giorno dopo siamo andati lo stesso a vedere i Godspeed You! Black Emperor e ti ho letto Daniil Charms camminando per Milano. e tornando a casa eri asciutto e incredulo. I campi colorati con un gessetto azzurro su un sacco di tela stremato. le luci da presepe. E le fermate.

Il sole è un tuorlo d’uovo sigillato nel torbido di un barattolo d’alcool. all’alba. I paesaggi che ci si potrebbe fare un film. come quella volta in Irlanda, con i Radiohead, sul pullman. quando il centro di Dublino è diventato un video.

E non ne posso più dei centri commerciali, delle canzoni commerciali, delle canzoni di merda. del sangue che cola. A Torino c’è un sole come se sapesse che sono qui sono per svago. per passare il tempo prima di partire. La vita di Bob Dylan e i libri di Perec che ho lasciato alla Feltrinelli per non caricarmi troppo lo zaino. Le grandi aspettative. Le cuffiette nuove e la stessa musica sull’ipod ormai da un anno.

Le mie pagine dove non c’è mai nessuno.

giovedì 31 marzo 2011

Acqua

e prima mi sono reso conto di essere a Torino, e mi sono detto che era meglio non considerarmi sempre di passaggio. ti ricorderemo ogni tanto, quando ci diranno di farlo. Nel bagno di questo bar che non sembra un bagno ma l’anticamera di un balcone. a osservare i buchi circolari sul soffitto del cesso e a accelerare coi pedali dell’acqua sotto il lavandino. specchi sporchi per proteggere gli spacci. Ieri notte ho pensato che ultimamente sto bene perché sto comprando solo buona musica. In questo bar a mangiare pranzo completamente solo in tutto il locale, l’unico, che mette un silenzio e una tristezza incredibile. che devo ancora far passare tre ore e mezza e non so cosa fare non so dove andare non so a chi pensare. e fuori il cielo è un foglio grigio opaco che nasconde un tumore di sole di lava tiepida. E ieri mi stupivo che alle otto del mattino faceva già chiaro. come quella notte che dopo aver letto Tarantula di Bob Dylan sentivo la testa pulsare e le labbra formicolare e il corpo in tensione per l’ubriacatura di parole e di significati. che si annodano bene e male come i capelli sotto la pioggia.

mercoledì 30 marzo 2011

Avivistamenti

Ci son delle volte, quando sono in giro, che mi capita di vedere della gente famosa, per strada, cioè, non della gente famosa reale, ma dei sosia, se così vogliamo dire, uguali. Tipo una volta, una mattina presto, qualche mese fa, faceva freddo, stavo uscendo da Porta Susa, ho girato l’angolo, mi è passato accanto Miles Davis. Un’altra, ieri, stavo facendo quei due scalini che ci sono all’entrata di Porta Nuova, su quei due scalini che ci sono all’entrata di Palazzo Nuovo c’era Bukowski. Oppure oggi, sul treno delle 17 45 che da Porta Nuova porta a Bra, quando stavo per scendere, a Bra, che ero davanti alla porta a aspettare che il treno si fermasse e si potesse scendere, davanti a me c’era Johnatan Coe.

venerdì 18 marzo 2011

A plain picture

Le grammatiche greche, i libri, i libri distratti e i libri persi fra gli altri. micah p hinson son qui che t’ascolto, ho sonno e ormai ti so già, e ti conosco così bene che non sarebbe male, se facessi un altro disco. le tazze sparse sulla scrivania, i pacchi, i pacchetti e gli imballaggi di carta gialla, gli spaghetti giapponesi che si accavallavano su un naso che non c’è mai stato e poi la perfetta vibrazione delle bacchette, che andrebbero usate per suonare la batteria, non per stringere pesci. La verità è un'immagine semplice. E tutto questo non ha senso se lo si guarda da davanti, basta spostarsi verso destra, poi verso sinistra, poi sedersi e guardare a terra. Parole, parole, parole, ma che cosa mi ci vuole, mi ci vuole leonard cohen, tutto minuscolo, tutto di seguito, tutto d’un fiato, un fiato lunghissimo, tortuoso, monotono e tintinnante e soffocato, perché d’altronde bob dylan ha aperto una strada a tutti, ma non molti sono interessati, altri hanno già altre strade. e comunque il caffè d’orzo è buono, nonostante quello che la popolazione mondiale continua a tramandarsi negli anni, raymond carver scriveva in silenzio, questi brani sono stati scritti in silenzio, la disciplina dell’azione sta nel non violarli. e il the, i cucchiaini lunghi per le tazze alte e quel mio sogno di rimanere rinchiuso nella mia stanza per sempre ed essere autosufficiente e poi uscire, prendere la macchina, bagnarsi, rischiare di morire a ogni curva e non vedere le macchine non vedere la gente non vedere più niente perché i vetri son sporchi, da dentro e da fuori, ma soprattutto da dentro e quando torno sono puliti perché gli è piovuto addosso per delle ore e la macchina ha un altro colore è nera ma è blu, e poi torniamo tutti a casa, dopo delle ore dove non pensavamo più di avere un corpo e le frenate mi trattavano la gola come una lama tratta l’acqua e ormai sento che ho perso tensione ho perso precisione sbando e rallento scalo e mi fermo.