I miei viaggi disimpegnati, i miei tempi morti. Le tratte per Milano, Padova, Bolzano. coi cieli scarichi, i paesaggi neri e gli scioperi delle città e dei ferrovieri. Le mie duecento insicurezze e i dubbi che squartano i finestrini. I libri da leggere, i libri già letti, le cuffiette rotte. gli arrivi a Milano, sani e salvi, in gloria, con la luce da sopra e da tutti gli angoli. le solitudini. le attese confinate e le ore stiracchiate. come quella volta che era morto tuo padre e il giorno dopo siamo andati lo stesso a vedere i Godspeed You! Black Emperor e ti ho letto Daniil Charms camminando per Milano. e tornando a casa eri asciutto e incredulo. I campi colorati con un gessetto azzurro su un sacco di tela stremato. le luci da presepe. E le fermate.
Il sole è un tuorlo d’uovo sigillato nel torbido di un barattolo d’alcool. all’alba. I paesaggi che ci si potrebbe fare un film. come quella volta in Irlanda, con i Radiohead, sul pullman. quando il centro di Dublino è diventato un video.
E non ne posso più dei centri commerciali, delle canzoni commerciali, delle canzoni di merda. del sangue che cola. A Torino c’è un sole come se sapesse che sono qui sono per svago. per passare il tempo prima di partire. La vita di Bob Dylan e i libri di Perec che ho lasciato alla Feltrinelli per non caricarmi troppo lo zaino. Le grandi aspettative. Le cuffiette nuove e la stessa musica sull’ipod ormai da un anno.
Le mie pagine dove non c’è mai nessuno.
domenica 3 aprile 2011
giovedì 31 marzo 2011
Acqua
e prima mi sono reso conto di essere a Torino, e mi sono detto che era meglio non considerarmi sempre di passaggio. ti ricorderemo ogni tanto, quando ci diranno di farlo. Nel bagno di questo bar che non sembra un bagno ma l’anticamera di un balcone. a osservare i buchi circolari sul soffitto del cesso e a accelerare coi pedali dell’acqua sotto il lavandino. specchi sporchi per proteggere gli spacci. Ieri notte ho pensato che ultimamente sto bene perché sto comprando solo buona musica. In questo bar a mangiare pranzo completamente solo in tutto il locale, l’unico, che mette un silenzio e una tristezza incredibile. che devo ancora far passare tre ore e mezza e non so cosa fare non so dove andare non so a chi pensare. e fuori il cielo è un foglio grigio opaco che nasconde un tumore di sole di lava tiepida. E ieri mi stupivo che alle otto del mattino faceva già chiaro. come quella notte che dopo aver letto Tarantula di Bob Dylan sentivo la testa pulsare e le labbra formicolare e il corpo in tensione per l’ubriacatura di parole e di significati. che si annodano bene e male come i capelli sotto la pioggia.
mercoledì 30 marzo 2011
Avivistamenti
Ci son delle volte, quando sono in giro, che mi capita di vedere della gente famosa, per strada, cioè, non della gente famosa reale, ma dei sosia, se così vogliamo dire, uguali. Tipo una volta, una mattina presto, qualche mese fa, faceva freddo, stavo uscendo da Porta Susa, ho girato l’angolo, mi è passato accanto Miles Davis. Un’altra, ieri, stavo facendo quei due scalini che ci sono all’entrata di Porta Nuova, su quei due scalini che ci sono all’entrata di Palazzo Nuovo c’era Bukowski. Oppure oggi, sul treno delle 17 45 che da Porta Nuova porta a Bra, quando stavo per scendere, a Bra, che ero davanti alla porta a aspettare che il treno si fermasse e si potesse scendere, davanti a me c’era Johnatan Coe.
venerdì 18 marzo 2011
A plain picture
Le grammatiche greche, i libri, i libri distratti e i libri persi fra gli altri. micah p hinson son qui che t’ascolto, ho sonno e ormai ti so già, e ti conosco così bene che non sarebbe male, se facessi un altro disco. le tazze sparse sulla scrivania, i pacchi, i pacchetti e gli imballaggi di carta gialla, gli spaghetti giapponesi che si accavallavano su un naso che non c’è mai stato e poi la perfetta vibrazione delle bacchette, che andrebbero usate per suonare la batteria, non per stringere pesci. La verità è un'immagine semplice. E tutto questo non ha senso se lo si guarda da davanti, basta spostarsi verso destra, poi verso sinistra, poi sedersi e guardare a terra. Parole, parole, parole, ma che cosa mi ci vuole, mi ci vuole leonard cohen, tutto minuscolo, tutto di seguito, tutto d’un fiato, un fiato lunghissimo, tortuoso, monotono e tintinnante e soffocato, perché d’altronde bob dylan ha aperto una strada a tutti, ma non molti sono interessati, altri hanno già altre strade. e comunque il caffè d’orzo è buono, nonostante quello che la popolazione mondiale continua a tramandarsi negli anni, raymond carver scriveva in silenzio, questi brani sono stati scritti in silenzio, la disciplina dell’azione sta nel non violarli. e il the, i cucchiaini lunghi per le tazze alte e quel mio sogno di rimanere rinchiuso nella mia stanza per sempre ed essere autosufficiente e poi uscire, prendere la macchina, bagnarsi, rischiare di morire a ogni curva e non vedere le macchine non vedere la gente non vedere più niente perché i vetri son sporchi, da dentro e da fuori, ma soprattutto da dentro e quando torno sono puliti perché gli è piovuto addosso per delle ore e la macchina ha un altro colore è nera ma è blu, e poi torniamo tutti a casa, dopo delle ore dove non pensavamo più di avere un corpo e le frenate mi trattavano la gola come una lama tratta l’acqua e ormai sento che ho perso tensione ho perso precisione sbando e rallento scalo e mi fermo.
sabato 19 febbraio 2011
Nemesi
"Nemesi" vuol dire vendetta.
è il titolo di un libro di Philip Roth,
l'ho visto stamattina, in un negozio,
camminando per le vie del centro.
Il freddo mi metteva a disagio.
Cercavo un posto dove dormire.
Avevo nostalgia di casa.
è il titolo di un libro di Philip Roth,
l'ho visto stamattina, in un negozio,
camminando per le vie del centro.
Il freddo mi metteva a disagio.
Cercavo un posto dove dormire.
Avevo nostalgia di casa.
sabato 5 febbraio 2011
Quando suonano
Oggi ho chiamato Ema, non rispondeva. Il telefono squillava, non rispondeva.
“Beh” - ho pensato – “magari dorme. “
Passa un’ora, chiamo Ema, non risponde.
“Dovevamo vederci” - penso - “dov’è finito?”
Allora decido prendo vado sotto casa sua, suono, risponde al campanello, mi apre, salgo. Gli chiedo:
“Com’è che non rispondevi prima?”
“Ho paura dei telefoni” mi dice lui.
“Cosa vuol dire che hai paura dei telefoni?”
“Che quando suonano mi prende un’ansia che mi spavento e non riesco a rispondere.”
“E da quando tutto ciò?”
“Da questo pomeriggio.”
Poi usciamo.
“Beh” - ho pensato – “magari dorme. “
Passa un’ora, chiamo Ema, non risponde.
“Dovevamo vederci” - penso - “dov’è finito?”
Allora decido prendo vado sotto casa sua, suono, risponde al campanello, mi apre, salgo. Gli chiedo:
“Com’è che non rispondevi prima?”
“Ho paura dei telefoni” mi dice lui.
“Cosa vuol dire che hai paura dei telefoni?”
“Che quando suonano mi prende un’ansia che mi spavento e non riesco a rispondere.”
“E da quando tutto ciò?”
“Da questo pomeriggio.”
Poi usciamo.
Inizio di una storia
Voglio raccontarvi la storia di un pesce, anzi no, di un giornale, anzi no, di mio figlio, anche se io un figlio non ce l’ho, quindi, dato un che un figlio non ce l’ho, si fa prima a parlar di me.
Che se ce l’avessi avuto un figlio, facile, avrei potuto parlar di lui, ma non ce l’ho, si fa a prima a parlar di me, per me. Che poi, a pensarci, io so già poco di me, cosa avrei potuto raccontare di mio figlio?
“Mio figlio, è nato, probabilmente morirà.” avrei potuto scrivere. Alla fine è poi questo. Il resto è soggettivo. Allora si fa prima a raccontar di me.
Anche perché poi, di un figlio avrei dovuto dire di più, è mica vera la cosa di prima, che bastava dire quello, no, bisognava anche dire certe cose che ora la società di oggi capisce che quello lì, quello nato e che probabilmente morirà, è veramente il figlio che non ho.
E allora avrei potuto scrivere: “Mio figlio, è nato, probabilmente morirà. Gli piace il colore blu, e suonare il piffero.” Solo che poi, adesso che ci penso, se poi mio figlio si comprava un piffero blu, io ero mica tanto contento.
Quindi meglio parlar di me, che si fa anche prima.
Io, eh, bella questa, chi sono io? Bella pure questa. Diciamo che io sono un uomo che è nato, morirà, e se avessi avuto un figlio, sarei stato pure il padre di mio figlio. Invece non ce l’ho non son padre di nessuno. Sono solo uno che, hai voglia, parlar di me, è una fatica, mica piccola poi, affatto, c’è da starci secchi, parlar di me, definire chi sono eccettera eccetera.
Forse era meglio se vi raccontavo la storia del pesce.
Ma anche lì, del pesce, io, che ne avrei saputo? E se poi un pesce avesse letto queste cose che scrivo? Come si sarebbe sentito? Per me mica bene, per me. Magari si sarebbe pure arrabbiato, e avrebbe pensato che gli uomini di oggi parlano di cose che non conoscono, come delle storie dei pesci o dei figli che non hanno. Ma menomale che io la storia del pesce non ve la voglio raccontare, vi voglio raccontare di me.
Diciamo che, me, cioè io, me, eh, è un po’ difficile, sapete?
Che se ce l’avessi avuto un figlio, facile, avrei potuto parlar di lui, ma non ce l’ho, si fa a prima a parlar di me, per me. Che poi, a pensarci, io so già poco di me, cosa avrei potuto raccontare di mio figlio?
“Mio figlio, è nato, probabilmente morirà.” avrei potuto scrivere. Alla fine è poi questo. Il resto è soggettivo. Allora si fa prima a raccontar di me.
Anche perché poi, di un figlio avrei dovuto dire di più, è mica vera la cosa di prima, che bastava dire quello, no, bisognava anche dire certe cose che ora la società di oggi capisce che quello lì, quello nato e che probabilmente morirà, è veramente il figlio che non ho.
E allora avrei potuto scrivere: “Mio figlio, è nato, probabilmente morirà. Gli piace il colore blu, e suonare il piffero.” Solo che poi, adesso che ci penso, se poi mio figlio si comprava un piffero blu, io ero mica tanto contento.
Quindi meglio parlar di me, che si fa anche prima.
Io, eh, bella questa, chi sono io? Bella pure questa. Diciamo che io sono un uomo che è nato, morirà, e se avessi avuto un figlio, sarei stato pure il padre di mio figlio. Invece non ce l’ho non son padre di nessuno. Sono solo uno che, hai voglia, parlar di me, è una fatica, mica piccola poi, affatto, c’è da starci secchi, parlar di me, definire chi sono eccettera eccetera.
Forse era meglio se vi raccontavo la storia del pesce.
Ma anche lì, del pesce, io, che ne avrei saputo? E se poi un pesce avesse letto queste cose che scrivo? Come si sarebbe sentito? Per me mica bene, per me. Magari si sarebbe pure arrabbiato, e avrebbe pensato che gli uomini di oggi parlano di cose che non conoscono, come delle storie dei pesci o dei figli che non hanno. Ma menomale che io la storia del pesce non ve la voglio raccontare, vi voglio raccontare di me.
Diciamo che, me, cioè io, me, eh, è un po’ difficile, sapete?
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