giovedì 30 dicembre 2010

Nessun titolo

Riprenderò a parlare, a camminare a bassa voce sotto i portici di vuoto e le notti di lampioni avvitati male. Voglio scrivere la tua storia sulle cartine stradali. Voglio uscire di casa senza sabbia in bocca o lame da affilare. Voglio ricoprire di carta stagnola le stelle e inchiodarle alla pelle, quando sto male.

domenica 26 dicembre 2010

Prove

“Ehi, non tocca a te parlare adesso?”
Iris si scuote i capelli e si accende un’altra sigaretta. Mi scruta da quelle fessure che ha per occhi e si versa un altro bicchiere. Mi sento vulnerabile e in balia di qualsiasi pensiero angoscioso.
“Bene così” dice Sol. Poi fa una pausa e dice: “Stasera mi mancano tutti”.
Lei l’avrebbe capito di sicuro.
“Uno bisogna che esca un po’ ognitanto..” dice, lanciando un’occhiata a Sol. “Capisci cosa voglio dire?”
“Oh Gesù” dice lui, guardandoci entrambi “L’hai già detto mille volte..”
Iris, un po’ come la mia prima moglie, quando dorme sogna in maniera piuttosto violenta, e d’improvviso mi prende una fitta alla caviglia, proprio dove mi ha colpito stanotte, nel sonno. Ogni tanto mi chiede della famiglia, di mio figlio.
Altroché se capisce, Iris.
Dall’arena si sente la banda che ha ricominciato a suonare, e alcuni accordi riescono a superare la distanza fra noi e i musicisti.
Sol si toglie di nuovo il cappello e se lo rigira fra le mani come se volesse controllare la tesa.
“Ma è davvero fuori pericolo? I medici hanno detto che non è in coma.” Rimane in attesa, fissandoci.
“Che vuoi che dicano?” sbotta Iris “Non sanno manco loro come finirà.”
“Ho visto..” dice Sol, ma non sembra molto convinto.
Siamo seduti in soggiorno, attorno al tavolo, coi copioni e delle bottiglie di chissà cosa a stabilire certe distanze. Inizio a sentire la pioggia battere sopra il tetto e mi alzo a chiudere le finestre.
“Sentite” dico “è inutile stare qui a chiedersi come finirà. Stavamo provando, no?”
“Già” dice Iris, guardando verso il salotto e tirando una boccata di fumo, mentre stringe gli occhi.
Riprendiamo i nostri copioni in mano e cerchiamo il punto dove avevamo interrotto.
“Mi sembra che dovessi essere tu a parlare”
“Si, Iris. Un attimo, ho perso il segno”
“Terza riga”
“Grazie. Ok”
Inspiro e cerco di non pensare. Recito:
“Tesoro, non ti demoralizzare. Le cose cambieranno. Ti aiuterò io a trovarne uno, questo fine settimana. Andrà tutto bene, vedrai.”
Sol sogghigna sconfortato.
“Cazzo Sol, la vuoi piantare?! Non abbiamo concluso un cazzo stasera” dice Iris.
“Ma che hai? Non ho parlato!”
“Senti Sol” fa un profondo respiro e si abbassa di una spanna, soffiando l’aria dal naso. “Nessuno di noi tre è dell’umore giusto per provare, ma dobbiamo farlo. Ok?”
“Ok, ok..” dice lui, abbassando lo sguardo. “è solo che mi sembra ridicolo farlo senza di loro.”
“Dobbiamo, Sol.”
“Lo so, lo so.”
Ripeto la battuta come se non fosse successo niente.
“Non so..” recita Iris.
“Davvero” dico io, e le poso la mia mano sulla sua, come da copione. Sento di non essere mai stato spontaneo in vita mia. Da piccolo pensavo sempre che la mia vita fosse uno di quei film che tanto guardavo.
Iris mi guarda e sorride. “Grazie” dice. Poi gira la pagina.

Riso

Il telefono è staccato. Nessuno sa dove siamo. La pioggia fa un suono talmente delizioso che spengo la musica e ti dico di ascoltare. Lo fai per pochi secondi, poi sembri ritornare sul tuo libro senza molto interesse per le mie meraviglie gratuite. Io invece rimango con gli occhi chiusi e mi immagino la strada macchiarsi d’acqua, le gocce cadere sempre più grosse, sfracellarsi contro l’asfalto sporco e tiepido. La pioggia che bagna di poco le finestre e slabbra di poco le dimensioni; che atterra senza suono e fresca, pesante; che tocca tutto ciò che c’è fuori da questo albergo: che si riunisce in un’unica, grande, pozzanghera.
Rimaniamo in silenzio per diversi minuti, poi mi abituo al suono della pioggia e quasi non lo sento più; allora mi alzo e guardo fuori dalla finestra. Per strada non c’è nessuno. Sono le due del pomeriggio, d’altronde. Nemmeno noi siamo in strada e, magari, molti di quelli che sono in casa in questo momento stanno guardando alla finestra pensando che è normale che nessuno sia in strada, non lo sono nemmeno loro, d’altronde.

Mi sono addormentato sul divano e quando mi risveglio tu stai davanti al fornello cercando di cucinare qualcosa. Guardo l’ora e sono solo le cinque di pomeriggio.
“Ma è presto..” ti dico.
“Ho fame” mi dici, senza nemmeno voltarti, ma sento che lo dici sorridendo, come se stessi sperando che non me ne accorgessi e continuassi a dormire.
“Cosa stai facendo?”
“Riso”
“Come fai a mangiare del riso alle cinque di pomeriggio?”
“Quando ho fame mangio. L’ho sempre fatto. E tutti mi hanno sempre chiesto: “Come fai a mangiare alle cinque di pomeriggio?”” dici sospirando.
“Eh, infatti.”
“E io ho sempre risposto che quando ho fame, mangio.”
Mi esce una risatina che sembra strana. Infatti ti giri e mi guardi.
“Problemi?” mi dici sorridendo, fingendo una minaccia.
“No, amico, figurati, amico. Però stai calmo ora!”
Riesco a farti ridere. Ti siedi accanto a me con il tuo piatto di riso, una forchetta e mi guardi. A un certo punto scoppi a ridere.
“Che hai?” ti chiedo, ridendo anch’ io.
“Fai una faccia..” e continui a ridere. “Sembra che stai seduto accanto a un' aliena”. E ridi ancora di più.
“Ma no, è che..boh, non ti ho mai visto mangiare così presto. Fai pure, ci mancherebbe.”
Posi il piatto sul tavolino e riaccendi la televisione. Come al solito sei nella tua solita posizione: una gamba piegata sotto il sedere e l’altra a penzoloni giù dal divano.
Alla televisione passano una puntata del tenente Colombo, come sempre. A un certo punto inizio a sentire fame anche io, sebbene siano appena le cinque e un quarto.
Dopo dieci minuti di borbottii nel mio stomaco, mi alzo e quando sono già davanti al fornello ti dico:
“M’hai fatto venire voglia pure a me”, vergognandomene un poco.
Sogghigni senza staccare lo sguardo dallo schermo.
Quando l’acqua bolle, aggiungo il sale e getto il riso. Subito una zaffata di vapore mi si sbatte in faccia. Dopo sento un grande freddo, ma lentamente anche questo passa.
Rimango lì davanti alla pentola a fissare l’acqua che bolle e il riso che si muove, gorgoglia, borbotta, si agita, sale, scende, sale, scende, sale e scende turbinando..
Sarà colpa del vapore, ma mi viene sonno, un sonno leggero. Da bambino, penso.
Scolo il riso e lo metto nel piatto, anche se la fame mi è già quasi del tutto passata.
Mi guardo allo specchio sopra il fornello e vedo che non mi sono nemmeno pettinato oggi: ho i capelli tutti arruffati. Me li sistemo senza molta cura con una mano, mentre già ritorno al divano.
Tu ti sei alzata e guardi alla finestra, con una mano appoggiata alla tenda a lato del vetro.
Mi siedo sullo schienale del divano e ti guardo, mangiando. Non finisco nemmeno il piatto e lo riporto sul fornello.
Ha smesso di piovere.
“Cosa guardi?”
“Niente.”
“Interessante..”
“E piantala” mi dici facendo sfuggire un accenno di risata. Silenzio. “Per quanto dovremo stare ancora qui?”
Sapevo che me l’avresti chiesto prima o poi.
“Un mese o due” ti dico.
Sospiri.
Ti dico: “è per il nostro bene, lo sai..”
“Si, lo so. È che mi annoio.” Ti giri e ti appoggi alla finestra. “Non so che fare tutto il giorno in una stanza d’albergo.”
“Potremo uscire, qualche volta, ma non di sera: ci sarebbe troppa gente in giro. Magari subito dopo pranzo, quando quasi tutti sono ancora in casa.”
“Ma ci saremo solo noi. Ci noterebbero di più.”
Sospiro anche io, grattandomi con un dito la nuca.
“Beh qualche volta lo potremo fare comunque. Anche perché pure qui all’albergo potrebbero insospettirsi.”
Vieni avanti e mi dai un bacio. Mi tieni un attimo la testa fra le mani e non dici nulla, poi torni a sederti, riapri il libro che stavi leggendo e, un attimo prima di ricominciare a leggere, dici:
“Stasera a cena voglio mangiare schifezze.”

mercoledì 15 dicembre 2010

L'ultima sigaretta

"In realtà è un’accozzaglia ordinaria di cose senza senso. Che tu ti illudi che abbiano una loro specialità, un loro significato.. ma non esiste.

E infatti mi ero concesso l’ultima sigaretta, l’ultima, e era dopo il concerto alla casa 139, a Milano, e avevo tenuto questa sigaretta tutto il giorno e mi ero detto La fumo dopo il concerto, perché di solito era una cosa che, sai, dopo il concerto, tutto sudato, fradicio, ti fumi la sigaretta ti piace. Allora mi son tenuto sta sigaretta, finito il concerto me la sono accesa, ho goduto il primo tiro, poi qualcuno mi ha distratto, ho dovuto fare altro, forse mi son messo a parlare, a fare delle cose, poi guardo sta sigaretta.. era alla fine."

venerdì 3 dicembre 2010

Idee strane

In questi giorni mi sono venute tre idee, che alla fine poi sono due, però alla fine sono anche tre.

La prima è che mi piacerebbe scrivere la storia di un gruppo che non è mai esistito, ma non un romanzo, nemmeno un racconto, proprio una specie di biografia, come se quel gruppo fosse esistito davvero. E, per farlo sembrare realistico, metterci dentro tutte le mie esperienze con tutti i gruppi che ho visto, o perfino ho conosciuto, o che ho soltanto visto suonare.

La seconda idea è che mi piacerebbe scrivere la biografia di uno scrittore che non è mai esistito, e farlo con una serietà e una devozione, se così posso dire, davvero speciale. E infatti in questi giorni mi sono venute in mente tante di quelle frasi da attribuire a questo scrittore mai esistito, tanti di quegli atteggiamenti, che per un momento mi sono detto: ma dai, ci proviamo a farla sta cosa? Poi mi è passato.

La terza idea cazzo me la son dimenticata.

sabato 27 novembre 2010

Cose da fare

è stato bello pensare, stasera, di aver qualcosa da fare al computer. Era come se il mio stare al computer acquisisse un senso, che di solito quando sono al computer non è che faccia delle gran cose, però ci sto tanto, quindi magari uno da fuori potrebbe anche pensare: perdita di tempo, invece perdita di tempo un cazzo, e poi vogliam parlare della vostra televisione? Ecco, allora, per favore, su, camminare, che non voglio sentire sti discorsi.

E quindi ero di sotto, in salotto, e stavo venendo di sopra, qui, al computer, e pensavo: che bello, devo fare delle cose al computer. E questo dover fare delle cose, quest’occupazione ma senza preoccupazioni, mi piaceva e mi piace tutt’ora. Che poi le cose che avevo da fare non è che fossero chissà cosa: fare la lista di Natale per mia nonna e scrivere un compito per il lettorato di inglese, centocinquanta parole sulla televisione italiana, una cosa un po’ culturale, non tanto l’esperienza vostra, aveva detto la lettrice. Va bene, facciamo così. Ci ha dato due settimane per farlo, oggi è venerdì, la prossima lezione è martedì, se glielo mando oggi (vuole che glieli mandiamo via mail, i compiti) gliel’avrò mandato ancora prima della prossima lezione, pensavo mentre salivo le scale , e già mi immaginavo la scena: ragazzi, ho visto che nessuno mi ha mandato la composition, tranne uno, un certo Dellapiana. Sì, sono io. Ecco, l’ho letta e va bene, falle pure così. Va bene. E poi quel momento di silenzio che significa: vedete lui? Fate come lui, invece di non fare niente tutto il giorno per due settimane e poi mandarmi la composition il prossimo lunedì sera.

E, mentre che pensavo tutte queste cose, ero già arrivato di sopra avevo acceso il computer.
Avevo acceso il computer e mentre avevo pensato: quasi quasi faccio prima la composition, guarda , che bravo, prima il dovere poi il piacere, che poi, piacere, mica tanto, è sempre una rottura di balle fare sta lista, di solito son sempre lì a farla a mano, sul treno, a pensare ai dischi che voglio senza averli davanti, prima di arrivare a casa di mia nonna e dargliela, che lei tutte le volte la apre, fa finta di leggerla, poi dice che l’ho scritta male, che non ci capisce niente, e io ogni anno mi chiedo perché non l’ho scritta al computer e infatti quest’anno la scrivo al computer, pensavo, poi non è andata proprio così.

È andata che poi sono arrivato di sopra, ho acceso il computer, mi sono seduto e mi son messo a scrivere una specie di poesia che, mentre mangiavo cena, mi era venuta su naturalmente, e mi erano venuti su i primi due o tre versi, che fanno così:
La parola CARNE
Ha, dentro di sé,
un dente.
E quei versi m’erano venuti quando avevo morso un tortellino in brodo, e avevo sentito la carne, e mi era venuta quest’immagine di un dente nella carne, e poi le poesie, se così vogliamo chiamarle, sono un po’ strane da spiegare, e alla fine ti sembran sempre delle cagate. Anche sta qui, il tortellino. Quindi meglio non spiegarle. Meglio dire che mi è venuta così, di colpo, mentre vagavo nel nulla e nella disperazione più totale, abbruttito dai mali della vita e dal nichilismo assoluto che mi pervade l’anima fin dalla nascita. Meglio dire che mi son messo lì a scrivere i primi tre versi e poi tutto il resto è venuto da sé, in cinque minuti, senza correggere niente, e questa poesia, se così la vogliamo chiamare, si chiama La parola CARNE e fa così:

La parola CARNE
Ha, dentro di sé,
un dente.
Un incisivo
Ficcato nel cuore di ogni carne.

Ogni dente è il germoglio di una carie,
ogni carie fiorisce nella carne.
Carie della carne,
carie della carne.

Pezzi
di bovini macellati:
ogni taglio un dente,
un incisivo
insito
nel centro della carne.

La carne vuole carne,
carne vuole carie, carie.

I fiori della carie,
carichi di petali
gonfi d’acqua
sgravanti,
spioventi
sulla pietra umida
e ruvida,
umida e ruvida.

La CARNE,
ricopre
i fiori
in bozzoli
di tumori
mai nati.

La CARNE,
espelle,
risucchia,
gonfia,
putrefazione di sé stessa.


-


I
colori
dell’arcobaleno
nei riflessi di carne
vecchia
quasi andata a male.

Sotto le luci delle vetrine,
la carne fosforescente,
i filetti, magri
e nudi
sono rosa
come un chewingum.

Pezzi d’America,
un tempo viventi.


Ecco, dopo che l’avevo scritta, ero talmente contento che mi son dimenticato delle cose che dovevo fare, perché era tanto che non scrivevo e ancor di più che non scrivevo una poesia, se così la vogliamo chiamare.
Allora ho fatto un giro su internet, suppongo, non ricordo bene, ma ricordo di essermi ricordato delle cose che avevo da fare solo un’oretta dopo, e mi son detto: Adesso le faccio. Però che palle la lista di Natale, quella magari la faccio domani, che tanto è il 26 novembre, che fretta c’è?
Poi dopo un po’ mi son ricordato della composition di centocinquanta parole sulla televisione italiana, un po’ culturale, non tanto sulla vostra esperienza personale, e anche lì, due balle. Magari domani. Non facciamo gli sboroni, che poi se son davvero l’unico ad averla mandata, ma che figura ci faccio?
E quindi non ho fatto niente di quello che dovevo fare, ho scritto una poesia, se così la vogliamo chiamare. Per oggi io dico che va bene.

mercoledì 3 novembre 2010

Nietzsche (forse capitolo uno, o forse anche basta così)

Mi è capitato di preparare un esame su Nietzsche, ultimamente, e la cosa che mi è rimasta più impressa, di quest’esame che ho preparato, è che Nietzsche sia stato portato via da Torino, ormai demente, su un treno diretto a Basilea, con un berretto da notte in testa, mentre cantava una canzone napoletana.

E pensavo che questa cosa qui, sarebbe bello iniziare da qui, dalla fine.

Ci pensavo proprio in questi giorni, in cui preparavo l’esame, che a me, le cose stupide, quelle senza grande importanza, quelle che staranno sempre fuori dalla Storia, insomma, le cazzate, mi rimangono sempre impresse. Cioè se ora uno dovesse chiedermi di spiegare la filosofia di Nietzsche, ci metterei un momento, a iniziare, e probabilmente non direi nemmeno tutto, ma se uno mi chiedesse cosa mi ricordo, io, di Nietzsche, cosa mi è piaciuto, io non avrei dubbi: Nietzsche, filosofo fondamentale per la storia dell’ottocento e del novecento, dopo aver vissuto per qualche anno a Torino, impazzito, è stato fatto salire su un treno per Basilea da un suo amico che si chiamava Overbeck, venuto a Torino apposta per salvare il suo amico, dopo aver ricevuto delle lettere deliranti, e, sul quel treno, Niezsche, Friederich Nietzsche, autore di opere come La nascita della tragedia, Crepuscolo degli Idoli, Così parlò Zarathustra, Ecce Homo, L’anticristo, filosofo fondamentale per la civiltà moderna fra ottocento e novecento, ci è salito con un berretto da notte in testa e cantando una canzone napoletana.

E pensavo: chissà che canzone era? Per me era “Funiculì Funiculà”.

Che Funiculì Funiculà è una canzone napoletana, io non è che ne sappia molto di canzoni tradizionali, anzi non ne so proprio niente, ma non perché non mi piacciano, non mi sono mai interessato, uno a delle cose si interessa ad altre no, vai a capire il perché poi, però dicevo che Funiculì Funiculà è una canzone napoletana nata agli inizi del Novecento, in Campania, per celebrare l’arrivo in quelle zone della funicolare. E questa cosa la so non perché sono andato a cercare informazioni su Internet, ma perché mi ricordo che era la risposta a una domanda di Chi vuol esser milionario, che a dirlo un po’ mi vergogno, ma, un po’ di anni fa, io guardavo Chi vuol esser milionario tutte le sere, era un appuntamento fisso, quand’ero più piccolo avevo perfino il videogioco per il computer, e ricordo che a una ragazza avevano chiesto quale avvenimento celebrasse Funiculì Funiculà, o una domanda simile, probabilmente messa in un modo più difficile, che letta così è evidente, che Funiculì Funiculà celebri l’arrivo della funicolare a Napoli, o in Campania, comunque. Ma poi perché celebrare? Cosa c’entra il verbo celebrare con Funiculì Funiculà? Delle volte uno dice delle cose che se ci pensa ci rimane stranito, sembra quasi che non siamo noi a parlare, delle volte.

E pensavo che questa cosa qua, dell’essere parlati, la diceva anche sempre Carmelo Bene.

Che poi, a dirla tutta, non è che se la fosse inventata Bene, la cosa dell’essere parlati, è tutto un discorsone lungo di Lacan e anche di De Saussure, che Bene citava spesso, soprattutto nella puntata dell’Uno contro tutti di Maurizio Costanzo, dove, fra l’altro, dice che Nietzsche è impazzito, e se l’è meritato, non come tanti pazzi di oggi, che non se lo meritano, che sono mediocri.