sabato 19 febbraio 2011

Nemesi

"Nemesi" vuol dire vendetta.
è il titolo di un libro di Philip Roth,
l'ho visto stamattina, in un negozio,
camminando per le vie del centro.

Il freddo mi metteva a disagio.
Cercavo un posto dove dormire.
Avevo nostalgia di casa.

sabato 5 febbraio 2011

Quando suonano

Oggi ho chiamato Ema, non rispondeva. Il telefono squillava, non rispondeva.

“Beh” - ho pensato – “magari dorme. “
Passa un’ora, chiamo Ema, non risponde.
“Dovevamo vederci” - penso - “dov’è finito?”
Allora decido prendo vado sotto casa sua, suono, risponde al campanello, mi apre, salgo. Gli chiedo:
“Com’è che non rispondevi prima?”
“Ho paura dei telefoni” mi dice lui.
“Cosa vuol dire che hai paura dei telefoni?”
“Che quando suonano mi prende un’ansia che mi spavento e non riesco a rispondere.”
“E da quando tutto ciò?”
“Da questo pomeriggio.”


Poi usciamo.

Inizio di una storia

Voglio raccontarvi la storia di un pesce, anzi no, di un giornale, anzi no, di mio figlio, anche se io un figlio non ce l’ho, quindi, dato un che un figlio non ce l’ho, si fa prima a parlar di me.
Che se ce l’avessi avuto un figlio, facile, avrei potuto parlar di lui, ma non ce l’ho, si fa a prima a parlar di me, per me. Che poi, a pensarci, io so già poco di me, cosa avrei potuto raccontare di mio figlio?
“Mio figlio, è nato, probabilmente morirà.” avrei potuto scrivere. Alla fine è poi questo. Il resto è soggettivo. Allora si fa prima a raccontar di me.

Anche perché poi, di un figlio avrei dovuto dire di più, è mica vera la cosa di prima, che bastava dire quello, no, bisognava anche dire certe cose che ora la società di oggi capisce che quello lì, quello nato e che probabilmente morirà, è veramente il figlio che non ho.
E allora avrei potuto scrivere: “Mio figlio, è nato, probabilmente morirà. Gli piace il colore blu, e suonare il piffero.” Solo che poi, adesso che ci penso, se poi mio figlio si comprava un piffero blu, io ero mica tanto contento.
Quindi meglio parlar di me, che si fa anche prima.

Io, eh, bella questa, chi sono io? Bella pure questa. Diciamo che io sono un uomo che è nato, morirà, e se avessi avuto un figlio, sarei stato pure il padre di mio figlio. Invece non ce l’ho non son padre di nessuno. Sono solo uno che, hai voglia, parlar di me, è una fatica, mica piccola poi, affatto, c’è da starci secchi, parlar di me, definire chi sono eccettera eccetera.
Forse era meglio se vi raccontavo la storia del pesce.

Ma anche lì, del pesce, io, che ne avrei saputo? E se poi un pesce avesse letto queste cose che scrivo? Come si sarebbe sentito? Per me mica bene, per me. Magari si sarebbe pure arrabbiato, e avrebbe pensato che gli uomini di oggi parlano di cose che non conoscono, come delle storie dei pesci o dei figli che non hanno. Ma menomale che io la storia del pesce non ve la voglio raccontare, vi voglio raccontare di me.
Diciamo che, me, cioè io, me, eh, è un po’ difficile, sapete?

domenica 30 gennaio 2011

Scarabocchi

Questo pomeriggio, verso le due, ho notato che eran due giorni che non scrivevo a mano. E questa cosa qui , il non scrivere più a mano da ben due giorni, mi ha fatto un effetto stranissimo, come se per due giorni mi fossi dimenticato di una cosa importantissima, di una cosa da fare assolutamente, e allora ho cercato una penna sulla scrivania, non ce n’erano, di penne. Son sceso in salotto, ho preso una Staedtler blu, son tornato sopra ho scarabocchiato una pagina intera. Poi una pagina intera di firme. Poi un’altra di scarabocchi. E, quando ho girato quest’ultimo foglio per scarabocchiarlo anche dall’altro lato, ho notato che avevo fatto quattro disegni, se così li si può chiamare, astratti, se così possiamo dire, che, in fila, mi ricordavano uno un castello, uno un barattolo, uno una maglietta, uno una tazza. Allora m’è venuto in mente che non sarebbe male intitolare un disco Castlejarshirtcup, un po’ sulla scia di Swordfishtrombones di Tom Waits, e, come copertina, mettere quel disegno lì. È una cosa un po’ strana, e anche un po’ malata, il fatto che mi vengano in mente i titoli di dischi che devo ancora fare (se mai li farò) e ora che ci penso questa non è nemmeno la prima volta che mi succede. Mi ricordo che una volta stavo leggendo un libro di poesie di Leonard Cohen, ho letto un verso che diceva: “Under the cordless travelling moon” e ho pensato che sarebbe stato un titolo bellissimo per un disco d’esordio. Avevo pure già in mente la copertina. Ora non mi piace più tanto.

giovedì 30 dicembre 2010

Nessun titolo

Riprenderò a parlare, a camminare a bassa voce sotto i portici di vuoto e le notti di lampioni avvitati male. Voglio scrivere la tua storia sulle cartine stradali. Voglio uscire di casa senza sabbia in bocca o lame da affilare. Voglio ricoprire di carta stagnola le stelle e inchiodarle alla pelle, quando sto male.

domenica 26 dicembre 2010

Prove

“Ehi, non tocca a te parlare adesso?”
Iris si scuote i capelli e si accende un’altra sigaretta. Mi scruta da quelle fessure che ha per occhi e si versa un altro bicchiere. Mi sento vulnerabile e in balia di qualsiasi pensiero angoscioso.
“Bene così” dice Sol. Poi fa una pausa e dice: “Stasera mi mancano tutti”.
Lei l’avrebbe capito di sicuro.
“Uno bisogna che esca un po’ ognitanto..” dice, lanciando un’occhiata a Sol. “Capisci cosa voglio dire?”
“Oh Gesù” dice lui, guardandoci entrambi “L’hai già detto mille volte..”
Iris, un po’ come la mia prima moglie, quando dorme sogna in maniera piuttosto violenta, e d’improvviso mi prende una fitta alla caviglia, proprio dove mi ha colpito stanotte, nel sonno. Ogni tanto mi chiede della famiglia, di mio figlio.
Altroché se capisce, Iris.
Dall’arena si sente la banda che ha ricominciato a suonare, e alcuni accordi riescono a superare la distanza fra noi e i musicisti.
Sol si toglie di nuovo il cappello e se lo rigira fra le mani come se volesse controllare la tesa.
“Ma è davvero fuori pericolo? I medici hanno detto che non è in coma.” Rimane in attesa, fissandoci.
“Che vuoi che dicano?” sbotta Iris “Non sanno manco loro come finirà.”
“Ho visto..” dice Sol, ma non sembra molto convinto.
Siamo seduti in soggiorno, attorno al tavolo, coi copioni e delle bottiglie di chissà cosa a stabilire certe distanze. Inizio a sentire la pioggia battere sopra il tetto e mi alzo a chiudere le finestre.
“Sentite” dico “è inutile stare qui a chiedersi come finirà. Stavamo provando, no?”
“Già” dice Iris, guardando verso il salotto e tirando una boccata di fumo, mentre stringe gli occhi.
Riprendiamo i nostri copioni in mano e cerchiamo il punto dove avevamo interrotto.
“Mi sembra che dovessi essere tu a parlare”
“Si, Iris. Un attimo, ho perso il segno”
“Terza riga”
“Grazie. Ok”
Inspiro e cerco di non pensare. Recito:
“Tesoro, non ti demoralizzare. Le cose cambieranno. Ti aiuterò io a trovarne uno, questo fine settimana. Andrà tutto bene, vedrai.”
Sol sogghigna sconfortato.
“Cazzo Sol, la vuoi piantare?! Non abbiamo concluso un cazzo stasera” dice Iris.
“Ma che hai? Non ho parlato!”
“Senti Sol” fa un profondo respiro e si abbassa di una spanna, soffiando l’aria dal naso. “Nessuno di noi tre è dell’umore giusto per provare, ma dobbiamo farlo. Ok?”
“Ok, ok..” dice lui, abbassando lo sguardo. “è solo che mi sembra ridicolo farlo senza di loro.”
“Dobbiamo, Sol.”
“Lo so, lo so.”
Ripeto la battuta come se non fosse successo niente.
“Non so..” recita Iris.
“Davvero” dico io, e le poso la mia mano sulla sua, come da copione. Sento di non essere mai stato spontaneo in vita mia. Da piccolo pensavo sempre che la mia vita fosse uno di quei film che tanto guardavo.
Iris mi guarda e sorride. “Grazie” dice. Poi gira la pagina.

Riso

Il telefono è staccato. Nessuno sa dove siamo. La pioggia fa un suono talmente delizioso che spengo la musica e ti dico di ascoltare. Lo fai per pochi secondi, poi sembri ritornare sul tuo libro senza molto interesse per le mie meraviglie gratuite. Io invece rimango con gli occhi chiusi e mi immagino la strada macchiarsi d’acqua, le gocce cadere sempre più grosse, sfracellarsi contro l’asfalto sporco e tiepido. La pioggia che bagna di poco le finestre e slabbra di poco le dimensioni; che atterra senza suono e fresca, pesante; che tocca tutto ciò che c’è fuori da questo albergo: che si riunisce in un’unica, grande, pozzanghera.
Rimaniamo in silenzio per diversi minuti, poi mi abituo al suono della pioggia e quasi non lo sento più; allora mi alzo e guardo fuori dalla finestra. Per strada non c’è nessuno. Sono le due del pomeriggio, d’altronde. Nemmeno noi siamo in strada e, magari, molti di quelli che sono in casa in questo momento stanno guardando alla finestra pensando che è normale che nessuno sia in strada, non lo sono nemmeno loro, d’altronde.

Mi sono addormentato sul divano e quando mi risveglio tu stai davanti al fornello cercando di cucinare qualcosa. Guardo l’ora e sono solo le cinque di pomeriggio.
“Ma è presto..” ti dico.
“Ho fame” mi dici, senza nemmeno voltarti, ma sento che lo dici sorridendo, come se stessi sperando che non me ne accorgessi e continuassi a dormire.
“Cosa stai facendo?”
“Riso”
“Come fai a mangiare del riso alle cinque di pomeriggio?”
“Quando ho fame mangio. L’ho sempre fatto. E tutti mi hanno sempre chiesto: “Come fai a mangiare alle cinque di pomeriggio?”” dici sospirando.
“Eh, infatti.”
“E io ho sempre risposto che quando ho fame, mangio.”
Mi esce una risatina che sembra strana. Infatti ti giri e mi guardi.
“Problemi?” mi dici sorridendo, fingendo una minaccia.
“No, amico, figurati, amico. Però stai calmo ora!”
Riesco a farti ridere. Ti siedi accanto a me con il tuo piatto di riso, una forchetta e mi guardi. A un certo punto scoppi a ridere.
“Che hai?” ti chiedo, ridendo anch’ io.
“Fai una faccia..” e continui a ridere. “Sembra che stai seduto accanto a un' aliena”. E ridi ancora di più.
“Ma no, è che..boh, non ti ho mai visto mangiare così presto. Fai pure, ci mancherebbe.”
Posi il piatto sul tavolino e riaccendi la televisione. Come al solito sei nella tua solita posizione: una gamba piegata sotto il sedere e l’altra a penzoloni giù dal divano.
Alla televisione passano una puntata del tenente Colombo, come sempre. A un certo punto inizio a sentire fame anche io, sebbene siano appena le cinque e un quarto.
Dopo dieci minuti di borbottii nel mio stomaco, mi alzo e quando sono già davanti al fornello ti dico:
“M’hai fatto venire voglia pure a me”, vergognandomene un poco.
Sogghigni senza staccare lo sguardo dallo schermo.
Quando l’acqua bolle, aggiungo il sale e getto il riso. Subito una zaffata di vapore mi si sbatte in faccia. Dopo sento un grande freddo, ma lentamente anche questo passa.
Rimango lì davanti alla pentola a fissare l’acqua che bolle e il riso che si muove, gorgoglia, borbotta, si agita, sale, scende, sale, scende, sale e scende turbinando..
Sarà colpa del vapore, ma mi viene sonno, un sonno leggero. Da bambino, penso.
Scolo il riso e lo metto nel piatto, anche se la fame mi è già quasi del tutto passata.
Mi guardo allo specchio sopra il fornello e vedo che non mi sono nemmeno pettinato oggi: ho i capelli tutti arruffati. Me li sistemo senza molta cura con una mano, mentre già ritorno al divano.
Tu ti sei alzata e guardi alla finestra, con una mano appoggiata alla tenda a lato del vetro.
Mi siedo sullo schienale del divano e ti guardo, mangiando. Non finisco nemmeno il piatto e lo riporto sul fornello.
Ha smesso di piovere.
“Cosa guardi?”
“Niente.”
“Interessante..”
“E piantala” mi dici facendo sfuggire un accenno di risata. Silenzio. “Per quanto dovremo stare ancora qui?”
Sapevo che me l’avresti chiesto prima o poi.
“Un mese o due” ti dico.
Sospiri.
Ti dico: “è per il nostro bene, lo sai..”
“Si, lo so. È che mi annoio.” Ti giri e ti appoggi alla finestra. “Non so che fare tutto il giorno in una stanza d’albergo.”
“Potremo uscire, qualche volta, ma non di sera: ci sarebbe troppa gente in giro. Magari subito dopo pranzo, quando quasi tutti sono ancora in casa.”
“Ma ci saremo solo noi. Ci noterebbero di più.”
Sospiro anche io, grattandomi con un dito la nuca.
“Beh qualche volta lo potremo fare comunque. Anche perché pure qui all’albergo potrebbero insospettirsi.”
Vieni avanti e mi dai un bacio. Mi tieni un attimo la testa fra le mani e non dici nulla, poi torni a sederti, riapri il libro che stavi leggendo e, un attimo prima di ricominciare a leggere, dici:
“Stasera a cena voglio mangiare schifezze.”