lunedì 11 ottobre 2010

Cartelli

C'è una poesia di Bukowski che si chiama "E così vorresti fare lo scrittore?" che è da un po' di tempo che mi fa pensare, e che mi fa venire voglia di scriverla qui, e di questa poesia io ne ho già parlato a diversa gente, e l'ho fatta leggere, anche, a diversa gente, quindi magari ora sembrerò un po' noioso o anche ripetitivo, ed è così, perché io sono noioso e ripetitivo, quindi lasciatemi fare che voglio mantenermi saldo ai miei problemi.

Ecco, c'è questa poesia di Bukowski, che fra l'altro ha dato anche il titolo a un libro di poesie, sempre di Bukowski, che appunto si chiama, E così vorresti fare lo scrittore?.
Questa poesia, per me, dovrebbe, e questa cosa l'ho già detta a tutti, quindi perdonatemi se la ripeto, ma è proprio una cosa che, non c'è niente da fare, mi è venuta così spontanea la prima volta, che mi è rimasta impressa, marchiata a fuoco da qualche parte del cervello; questa poesia, dicevo, per me, dovrebbero attaccarla in giro per strada, al posto dei cartelli stradali, o fare dei cartelli apposta, nelle grandi piazze, delle grandi città, e anche delle piccole, e appenderla ovunque, nelle librerie, nelle biblioteche, nei negozi di penne e quaderni, nei negozi di informatica, per strada, ovunque.

Questa è una poesia che, per me, crea un prima e un dopo, se uno la legge attentamente, e, quando dico attentamente, non intendo con attenzione, ma con il cuore aperto, solo che dire subito con il cuore aperto mi sembrava un po' troppo patetico, ma qui, un po' in fondo, credo vada bene.

Un giorno poi, me lo riprometto da tempo, più o meno da quando ho iniziato a parlarne alla gente, di questa poesia, io un giorno questa poesia me la voglio scrivere al computer, stamparla su un foglio e poi attaccarmela sulla parete che ho davanti quando scrivo al computer, in modo che ogni volta che aprirò il programma di scrittura, ci penserò un attimo, prima di scrivere. E non cambierà niente, lo so già, continuerò a scrivere lo stesso, però con una coscienza, mi viene da dire, differente.

Ecco, io direi che come introduzione questa va bene ed è già fin troppo lunga, quindi lascio la parola a chi ha scritto una poesia come questa, che per me, solo con questa poesia, s'è guadagnato l'immortalità.



E così vorresti fare lo scrittore?


se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
a meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
se lo fai per soldi o per
fama,
non farlo.
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun
altro,
lascia perdere.

se devi aspettare che ti esca come un
ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce come un ruggito,
fai qualcos'altro.
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.

non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persona che si definiscono scrittori,
non essere monotono e noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall'auto-
compiacimento.
le biblioteche del mondo hanno
sbadigliato
fino ad addormentarsi
per tipi come te.
non aggiungerti a loro.
non farlo.
a meno che non ti esca
dall'anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all'omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.

quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da
sé e continuerà
finchè tu morirai o morirà in
te.

non c'è altro modo.

e non c'è mai stato.

domenica 3 ottobre 2010

Che poi

Volevo dire ancora una cosa, su questo argomento, una cosa che mi è venuta in mente prima.
Pensiamo a un popolo con un alfabeto di sole cinque lettere, che popolo sarebbe? Un popolo di trogloditi, sarebbe.

Cose che mi vengono in mente alle due di notte

Il popolo potenzialmente più intelligente, aperto mentalmente, e, secondo me, portato a qual si voglia forma d'arte è quello con l'alfabeto più largo. Esattamente, più largo, comprendente il maggior numero di lettere, che alla fine non sono altro che segni convenzionali che codificano dei suoni. Ecco, se si mettono a confronto tutti gli alfabeti esistenti, quello più lungo, quindi più largo, per me sarebbe interessante andare a vedere di chi è, quell'alfabeto.

Più lettere si hanno, più suoni possono essere espressi, e, secondo me, questo porta a una maggior ricchezza di sfumature. Mi ricordo una cosa che mi ha detto una ragazza che conosco che ha fatto un corso all'università sul significante e il significato, mi sembra di ricordare, corso che se ci fosse da me lo farei subito, ma non divaghiamo, dicevo, in questo corso, il punto di partenza era che le parole, in una lingua, se si dicono in un certo modo, c'è un motivo, se ricordo bene.

E poi, se uno ci pensa, è anche solo una questione matematica: più lettere si hanno, più parole si possono formare, e, allora, più parole si possono formare più sono le cose che si possono dire e le sfumature di senso che si possono avere. Non c'è manco bisogno di tirare in ballo il classico esempio dei mille modi di dire neve, e tutta quella storia che tutti sappiamo già del Senso di Smilla per la neve, che me la citava perfino il mio professore di filosofia al liceo nei momenti morti.

Un' altra cosa che mi viene mente, che è successa qualche anno fa, è quando mi è capitato di parlare con un'amica rumena di mia cugina. Eravamo seduti su una panchina a parlare, era di sera, d'estate, e si parlava di scuola, credo, ma non sono sicuro, e a un certo punto questa ragazza aveva detto che in rumeno c'erano due vocali in più.

E me le aveva dette e io ero rimasto stupito, perché mai avevo immaginato che, diciamo in Europa, ci potessero essere delle diversità, fra i vari alfabeti, che le lettere insomma erano quelle, come se fossero state imposte dall'alto. Per tutti. E invece non è così.

E poi mi sono un po' perso, ma queste son cose che vengono così improvvise, che manco sembra di averle pensate, son delle cose che passano e come si fa a fermarle?

venerdì 1 ottobre 2010

Asce - Discorso immaginario sui gialli (quarta parte)

Ma, a pensarci meglio, forse sono solo io che non sono capace a riassumere i gialli. Mi viene in mente che, qualche anno dopo la malsana idea di scrivere un romanzo uguale a Dieci piccoli indiani, una domenica che ero da mia zia, mentre lei stava verniciando delle persiane, le avevo voluto raccontare un giallo che stavo leggendo, mi sembra di Jeffery Deaver: le avevo raccontato i primi due capitoli in mezz’ora, lei mi aveva ascoltato, in silenzio, dopo un po' mi aveva fermato, mi aveva detto che non ci aveva capito niente, e mi aveva fatto notare tutto quello che avevo sbagliato, nel raccontare, e mi aveva detto di finire il libro e la settimana dopo di tornare e raccontarglielo bene. E io la settimana dopo ero tornato, gliel’avevo raccontato, l’avevo di nuovo raccontato male.

Asce - Discorso immaginario sui gialli (terza parte)

E a scrivere il riassunto di Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie, edizioni gli Oscar Mondadori, costo 7 euro, art director: Giacomo Callo, mi è venuto da pensare che i gialli, a riassumerli, sembrano sempre ridicoli.

giovedì 30 settembre 2010

Asce - Discorso immaginario sui gialli (seconda parte)

Dieci piccoli indiani è stato il primo libro per adulti che ho letto, e il primo giallo, anche, che ho letto. Che ora, poi si dice ora ma non è ora, è un po’ di tempo fa, allora, un po’ di tempo fa ho ripreso in mano qualche libro della Christie, non riesco più a leggerli. Mi sembrano così banali, così vuoti. Mentre a tredici, quattordici anni leggevo solo gialli, e in particolare solo gialli di Agatha Christie, ora non riuscirei a leggerne uno in un mese. Son cambiato.

Me lo ricordo benissimo, il giorno in cui ho comprato Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie, edizioni gli Oscar Mondadori, costo 7 euro, art director: Giacomo Callo. Era poco prima di Natale, ero già in vacanza, e dovevo leggere per i compiti di italiano Dieci piccoli indiani di Agatha Christie e Sogno di una notte di mezza estate, di William Shakespeare. Li avevo presi in una libreria in centro ad Alba e, mi ricordo, tornando indietro al parcheggio dove era la nostra macchina, c’era la neve, erano le sei di sera, forse anche le sette, avevo detto a mia mamma che non volevo leggere i libri delle vacanze, che Shakespeare era noioso e pesante e Agatha Christie mi faceva paura. E io Shakespare e Agatha Christie non li avevo mai letti.

Ma era una di quelle mie cose di cui mi convinco, e mi convincevo, che poi a togliermele dalla testa ci vogliono le asce, e poi, quando mi accorgo che i miei pregiudizi erano sbagliati, infondati, stupidi, mi sento sempre piccolo, e mi vien da parlare piano.

E poi l’avevo letto in due giorni, Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie, edizioni gli Oscar Mondadori, costo 7 euro, art director: Giacomo Callo, e mi era piaciuto da morire. Solo che, e questa cosa mi fa pensare, appena arrivato a casa, avevo aperto il libro per leggere la prima parola e l’ultima del libro, come facevo sempre, e, in pratica, avevo già letto chi era l’assassino.

Mi fa pensare perché mi viene da chiedermi: e se non avessi il nome dell’assassino prima di iniziare il libro, sarebbe cambiato qualcosa? Mi sarebbe piaciuto lo stesso? O di più? O di meno? E ora leggerei ancora gialli, se non avessi letto il nome del primo assassino del mio primo libro giallo, prima di iniziarlo, il mio primo giallo. Son cose che fanno pensare, per me. è un po’ come quella storia del What if..?, mi sembra ci siano anche dei libri su questa cosa, cioè: cosa sarebbe successo se.. qualcosa. Di solito si fa con la Storia, questo discorso, la storia studiata a scuola, istituzionalizzata. Ma a pensarci lo si potrebbe fare anche con la Storia Personale, che per come sono fatto io ha la stessa importanza della Storia Universale. Sarei lo stesso se, invece di andare a leggere l’ultima pagina, fossi andato a bere un sorso d’acqua e me ne fossi dimenticato? Secondo me no, ma non saprei dire altro.

Forse è ora di fare una puntualizzazione, di aprire una parentesi, per quelli che Dieci piccoli indiani non l’hanno letto. Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie, parla di dieci persone riunite su un’isola deserta, sole, fra le quali si aggira un assassino che lentamente uccide uno per uno tutti i suoi compagni. E nella casa dove stanno c’è una specie di scultura, con dieci negretti, e ogni volta che uno muore scompare un negretto.

E poi muoiono tutti tranne due, che si ammazzano a vicenda, e si crede che tutto sia finito, ma si scopre che uno di quelli che erano morti tempo prima non era morto veramente, fingeva soltanto, e, quando poteva, si alzava e andava a ammazzare gli altri. Ecco, l’assassino è il giudice Lawrence Wargrave. Così, per rovinarvi il finale.

Che magari ora vi ho pure cambiato la vita, che non è che sia per forza una cosa buona, o per forza una cosa cattiva, però magari poi, fra tanti anni, mi ringrazierete.

Ma molto più probabilmente no.

Asce - Discorso immaginario sui gialli (prima parte)

Ho scritto un romanzo breve, in quarta ginnasio. È la copia esatta di Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie. L’ho scritto tutto a mano, su un quadernetto di taglia piccola con la copertina rigida, di cartone. A matita, con la grafia che avevo 6 o 7 anni fa, una grafia che ora, a guardarla, mi sembra orrenda. L’ho ritrovato stasera, nel cassetto dove per anni ho messo le cose che scrivevo: per la maggior parte poesiacce da adolescente deficiente. Era in cima a tutta quella pila di fogli, e me l’ero scordato. Ho aperto il libricino e sulla prima pagina c’è scritto:

Alunno/a: Dellapiana Andrea

Classe:

Scuola: IV gin A

Materia: Gialli

Sottolineato due volte.

Ricordo che l’avevo portato in giro per mesi, quel quadernetto. L’avevo fatto leggere a mia zia, e gliel’avevo portato il giorno del funerale della mia bisnonna. L’avevo portato a una collega di mia madre e probabilmente pure alle mie cugine. L’avevo fatto leggere anche a mia madre.

Prima dell’inizio del romanzo avevo scritto tutti i nomi dei personaggi con una breve descrizione per ognuno, per aiutare i lettori , credo d’aver pensato quand’ero troppo piccolo per rendermi conto di quanto fossi stupido.

Jack Smith (che vergogna): Propietario del Gothic Hotel (voglio morire. Il Gothic Hotel…)

Mary Smith: sorella di Jack e prop. del Gothic Hotel

Emily Brosten: vecchia signora casa e chiesa

Anthony Fishers: proprietario di un negozio di alimentari

Vera Nickson: moglie di A. Fishers

Edward Clopper: star della tv in declino

Din Anyston: giudice

Andy Fent: magistrato di mezza età

Bob Matterson: avvocato di Boston

Si vedeva già allora che a inventare i nomi ho sempre fatto schifo.

Poi inizia il romanzo:

I

“Jack! Jack! Vieni, veloce, oddio mi sento male, Jack! Nel roseto.. L’hanno ucciso.. Bob Matterson è morto, vieni!”

Furono queste parole che svegliarono improvvisamente Jack Smith, proprietario del Gothic Hotel insieme a sua sorella Mary, che stava tranquillamente dormendo.

“Cos’è successo, Mary? Cos’è successo? Sto scendendo, arrivo!”

Mary era davanti al roseto, sbiancata, sconvolta, muta dopo tante parole.

“Oddio, è terribile” disse piangendo e buttandosi fra le braccia di Jack.

“Cos’è successo, dimmi, perché stavi urlando in quel modo?”

Ecco, io, ora, comprassi un libro che inizia così, chiuderei il libro, lo poserei sul divano un attimo, salirei di sopra, accenderei il computer, cercherei su Google il nome della casa editrice, cercherei nel sito un indirizzo mail al quale scrivere, tornerei di sotto a prendere il libro, ne ricopierei l’inizio e scriverei, dopo, in f fondo:

“Voi siete dei deficienti. Spero che la morte vi prenda di sopravvento.

Andate a lavorare in una televisione regionale, lì vi prendono sicuro.”

E, poi, tornerei in salotto e starei un po’ lì senza far niente.


Non finisce mica lì, il primo capitolo, ma non ho intenzione di copiarne altre parti. Solo che sfogliandolo ho notato delle correzioni, in penna blu, delle cancellature e delle freccette, e mi è tornato in mente che quelle erano le cancellature di mia zia, che l’aveva letto, l’aveva corretto e poi quando me l’aveva ridato mi aveva detto: “Bello, manca un po’ di approfondimento psicologico. Bravo però.”

E ora mi immaginavo la pena e, o, il divertimento di mia zia, a leggere quella roba. Io mi sarei vergognato per me stesso, non fossi stato me stesso ma fossi stato mia zia.

E poi mi chiedevo che ragazzino dovessi essere stato. E che periodo dovesse essere stato, quello, da mettermi lì e, a mano, scrivere un romanzo. Dev’essere stato un periodo felice, penso. O almeno un periodo in cui non avevo proprio niente da fare e tanta voglia di scrivere. Di sicuro era appena iniziata la mia passione per i gialli, e l’aver imitato Dieci piccoli indiani non è affatto un caso, anzi.