Ogni volta la stessa situazione. Mancano pochi giorni
alla consegna dell’articolo e non ho ancora scritto una riga, non so da dove
partire e non so nemmeno su che cosa scriverlo.
Il problema, quasi
sempre, è che non trovo l’inizio del discorso. Come con lo scotch, che da bambino
ci ho perso chissà quanto tempo, a cercare l’inizio dello scotch. Mi metto lì, seduto,
le mani sulla tastiera, cerco un inizio, provo a scrivere, ma non concludo
nulla. In due giorni che ho provato a scrivere ho aperto e lasciato bianchi una decina di documenti word,
ho pensato e ripensato, mi sono sforzato di trovare uno spunto in qualche
libro, ma niente.
Allora mi sono detto che è tutta questione di esercizio,
che bisogna sciogliersi, riscaldarsi; come quando si fa ginnastica. E così ho
fatto, in questi due giorni: ho iniziato a scrivere senza nessuna direzione
specifica, soltanto come esercizio, per prenderci la mano. E il risultato è stato
che ho scritto, anche con facilità, due pagine di niente, in cui, per qualche
migliaio di battute, parlo di niente.
Poi mi metto lì, mi dico Adesso comincio. Niente.
Insomma, procrastino.
È un problema
parecchio diffuso, credo, quello del procrastinare, e, almeno per me, la
procrastinazione è uno dei miei difetti con
il quale ho più spesso a che fare, nella mia vita. Ad esempio mi ricordo il
periodo in cui dovevo scrivere la tesina per l’esame di maturità, qualche anno
fa, che era una cosa importante, che richiedeva un certo impegno, e mi ricordo,
dicevo, che avevo aspettato fino all’ultimo per iniziare a scrivere, e avevo
costantemente rimandato facendo dell’altro, invece di mettermi lì e provare a
tirar fuori qualcosa di concreto, che era poi l’unica cosa che avevo da fare. L’ho
poi scritta in tre giorni, la mia tesina, gli ultimi tre giorni a disposizione,
con la relativa ansia e oppressione che un caso del genere poteva darmi. Anche
il mio primo esame all’università, 1200 pagine da studiare, 5 libri da leggere,
l’ho preparato in due settimane.
La cosa particolare, forse, è che all’esame ho preso 30 e
la tesina è uscita bene; cioè mi son reso conto, negli anni, che col fiato sul
collo, anche se è una sensazione che detesto, lavoro bene comunque; anzi, forse,
per il modo sbagliato in cui sono fatto, è l’unico modo in cui riesco a
lavorare. E anche nei libri, per esempio, mi piace sentire quella sensazione
lì, di una cosa tirata via per il rotto della cuffia, come si dice, non so se
mi spiego, di un fiato sul collo che spinge in avanti la narrazione, di una certa
pressione, in qualche modo.
C’è un video su Youtube che mi piace moltissimo, si
intitola Procrastination, e ogni tanto mi vien da pensare che se si potesse
mettere un video sulla carta d’identità, io forse metterei quello. È un video
animato, disegnato, dove c’è una voce fuori campo che dice, in inglese,
“Procrastination is” e poi semplicemente una lista di azioni tipiche del
procrastinare, e alcune di queste azioni, tradotte, suonano così:
“Procrastinare è
evitare di fare qualcosa. è non essere in grado di iniziare. È leggere un
libro. È temperare la matita. È farsi una tazza di the. È trovare il modo più
difficile di fare qualcosa; è saltare da un’idea, a un’altra, a un’altra. È
guardare alla finestra, è guardare i vicini, è guardare la televisione, è non
essere capaci di smettere di guardare la televisione. È farsi una tazza di the.
È fumare una sigaretta. È ordinare la
scrivania. È giocare ai giochi del computer. è fare un sonnellino. È iniziare
otto cose contemporaneamente e non finirne una. È farsi una tazza di the. È
scrivere delle liste. È cercare di evitare l’inevitabile. Procrastinare è
aspettare il postino; è non essere capaci di decidere come fare una cosa; è
complicarsi la vita da soli; è non sapere quando finire qualcosa; è non sapere come, finire, qualcosa.”
Ecco, questi, che, naturalmente, sono solo degli esempi,
credo rendano bene l’idea dell’impegno nel non impegnarsi, se così lo si può
chiamare, di cui ho parlato prima.
E, pensando a quel video, mi è venuto in mente che
procrastinare significa, in fin dei conti, scegliere la via più facile, come ad
esempio scrivere due pagine sul fatto di non saper che argomento scegliere per
un articolo invece di scriverlo, come ho fatto io, oppure rimandare in
continuazione una scadenza; significa, insomma, evitare di affrontare uno
sforzo.
Scrivere, quando per scrivere si intende almeno provare a scrivere qualcosa che abbia un
valore, una forza, e, nel caso di un articolo, un minimo di comunicatività, io credo
sia un atto di solitudine, di concentrazione, di preparazione e, di
conseguenza, un’azione che richieda, almeno per quanto mi riguarda, un certo
sforzo.
A pensarci, infatti, quando arriva il momento di scrivere
un articolo, dopo aver ovviamente rimandato abbastanza, la difficoltà iniziale
che provo, cioè quella sensazione di non
saper da che parte iniziare, è semplicemente la reazione della mia testa, se
così si può dire, allo sforzo di mettere assieme qualcosa che stia in piedi, di
fare qualcosa di buono, insomma, che abbia un senso e una dignità. E per fare
questo, ovviamente, devo smettere di procrastinare.
Il punto è che, una volta iniziato, e anche una volta
finito, succede l’esatto opposto di quello che succedeva all’inizio: dal non
riuscire a fare, passo al voler fare meglio, al voler fare di più. è come se,
una volta uscito da quel meccanismo di continuo rimando, non fossi mai
pienamente soddisfatto di quello che faccio.
Ieri notte mi è capitato di vedere il video di
un’intervista dello scrittore americano David Foster Wallace, e a un certo
punto Foster Wallace dice: “Il perfezionismo è molto pericoloso, perché se la
tua fedeltà al perfezionismo è troppo alta, non fai mai niente. Perché fare
qualcosa risulta in qualche modo tragico, perché comporta sacrificare quanto
stupendo e perfetto quel qualcosa è nella tua testa, per quello che realmente
è.”
E ho pensato che lo scrivere un qualcosa che non sia solo
per me, ma anche per gli altri, come un articolo, mi sembra sia una mediazione fra
questi due impulsi, cioè quello istintivo della difficoltà di iniziare a fare, e quello dell’aspirazione,
ovviamente mai perseguita, al perfezionismo.
E mi sembra che il senso generale, di questo scrivere, almeno
per quanto mi riguarda, stia appunto in questo sforzo; e che il risultato, di
questo sforzo, di questa trazione, sia
appunto un movimento, uno smottamento, semplicemente: un cominciare.